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martedì 29 aprile 2014

L'Osservatorio: C'è una nuova forma geometrica: scoperta l'emielica

Modello di emielica

Una forma inedita, non presente in natura e scoperta lavorando con gli elastici, potrebbe facilitare la creazione di nuove molecole in futuro, secondo un nuovo studio condotto dall'Harvard University pubblicato sulla rivista Plos One. Si tratta dell'emielica (hemihelix): eliche a spirale tridimensionali in cui la spirale gira, si modifica o si inverte periodicamente lungo la lunghezza delle stesse strutture.
Per comprendere meglio come si verificano le strutture tridimensionali osservate, gli scienziati le hanno riprodotte utilizzando, allungando, unendo e rilasciando elastici di gomma.
Testando le differenze nel rapporto tra larghezza e altezza della striscia di gomma, è emerso che quando l'elastico è ampio rispetto all'altezza produce un'elica. Ulteriori osservazioni hanno permesso di identificare un valore critico del rapporto in cui la forma passa da un'elica a un'emielica con inversioni periodiche. 
Gli autori suggeriscono che questo fenomeno non è stato ancora osservato perché altre classi di materiali semplicemente si rompono quando si allungano ai livelli riprodotti in questi test. Comprendere precisamente come forgiare in modo prevedibile e coerente queste strutture consentirà agli scienziati di imitare queste caratteristiche geometriche in nuove molecole per nanodispositivi, tra cui sensori, risonatori e assorbitori di onde elettromagnetiche.
Tratto da: www.repubblica.it 


Parola d'autore: Davide Van De Sfroos


È il lago stesso, il mio «luogo». Un luogo che impari ad identificare con la misteriosa figura umana che il suo perimetro traccia, un luogo fatto di cose che vedi e che non vedrai mai.
C’è sempre stato qualcosa di magnetico e di ancestrale nel legame che ho con il lago di Como. Gli ho sempre affidato il ruolo importantissimo di essere «casa mia». Più tardi mi sono reso conto che era lui a possedermi, a provocarmi costantemente, come un’entità vera e propria.
Esiste un lago visto da riva e un lago visto dal lago, un lago visto dal monte e uno visto con gli occhi dei suoi abitanti.
Nella sua profondità reale e simbolica, sono racchiuse le epoche, leggende e profezie. Nelle sue sfaccettature ci viene da pensare quando, da bambini, gli adulti ci insegnavano per forza di cose ad avere paura del lago. Oggi qualcuno o qualcosa, sta insegnando al lago ad avere paura di noi.

Davide Van De Sfroos, Paura e leggende sul lago di Como


lunedì 28 aprile 2014

Parola d'autore: Umberto Eco


Chi non legge, a settant'anni avrà vissuto una sola vita: la propria! Chi legge avrà vissuto cinquemila anni: c'era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l'infinito... perché la lettura è un'immortalità all'indietro.

Umberto Eco

domenica 27 aprile 2014

"Poeti e compagnia": un viaggio nel Romanticismo tedesco

di
Mario Gaudio

Quando, nel 1834, Poeti e compagnia fu dato alle stampe, la reazione del pubblico e della critica risultò di estrema freddezza, come accade spesso per i capolavori letterari che, a differenza di tanta letteratura/spazzatura o, in maniera più educata, letteratura commerciale (vedi i vari Moccia, Faletti, E. L. James), non sono accolti a furor di popolo, ma necessitano di tempo per essere compresi e ritenuti indispensabili per il proprio bagaglio culturale. 
Del resto, come ogni classico che si rispetti, anche il romanzo di Eichendorff è, utilizzando una famosa constatazione di Calvino, «un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire», pertanto proponibile come antidoto spirituale/culturale in questi anni politicamente bui, culturalmente morti ed economicamente distruttivi. 
Joseph von Eichendorff
Certo, si tratta di un romanzo dalla trama complessa, difficilmente riassumibile, ma che tocca in profondità le corde dell’animo umano e induce ad attente riflessioni su tematiche quali la poesia, l’arte, l’amore e la vita. Siamo dunque dinanzi a pagine che affrontano argomenti universali, validi in ogni luogo e in ogni tempo e che custodiscono un distillato del più puro Romanticismo tedesco dei primi decenni dell’Ottocento.
La grandezza di Poeti e compagnia sta proprio in questo: racchiudere tutti i contenuti cari alla sensibilità romantica, ma ponendo come presupposto di base un’analisi della validità degli stessi; come direbbe Enrico De Angelis, curatore della edizione di riferimento, siamo dinanzi al «Romanticismo che giudica se stesso, nei suoi ideali e nelle sue tradizioni».
Un processo del genere potrebbe, a prima vista, sembrare alquanto tedioso per il lettore ma, con sublime maestria narrativa, Eichendorff affronta con leggerezza la materia del suo romanzo stimolando di continuo la curiositas e rilassando l’animo di chi si addentra nelle sue pagine con descrizioni paesaggistiche degne dei migliori pittori vedutisti e con il sapiente accostamento di termini capaci di far sentire a chi legge le brezze spiranti nel bosco, i cinguettii degli uccelli fra gli alberi e le folate di vento tra le mura diroccate di castelli ritenuti infestati da fantasmi.
Con estrema incisività, simile a un «portentoso mago» sognante i «tempi antichi che aveva imprigionato per incanto nei suoi cerchi silenziosi», lo scrittore tedesco penetra con sapienza e delicatezza nei recessi dell’animo umano facendovi emergere quel desiderio di libertà che solo la poesia riesce a garantire e solo il poeta è in grado di esprimere. 
Tuttavia, se l’arte della parola è al centro del romanzo uno spazio di estremo rilievo ha anche l’amore, nelle sue diverse sfumature: dalla paura di innamorarsi che porta alla fuga dalla persona amata (come accade al barone Fortunat), alla follia causata dalla passione (è il caso dell’ufficiale francese St. Val che perde il senno a causa della bellezza di Juana, novello “Orlando Furioso” senza lieto fine), sino ad arrivare all’amore malato della selvaggia contessa spagnola che allontana i suoi pretendenti ma, nello stesso tempo, teme di rimanere sola e diventa vittima di un dissidio interiore che la indurrà al suicidio.
Pagina dopo pagina, scorrono pezzi di vita dei protagonisti, perseguitati da qualcosa, ma estremamente attratti dalle loro paure: chi teme di amare si lascia sedurre, chi ama la libertà della poesia si ritrova imbrigliato nella tonaca sacerdotale (è il caso del conte Victor), chi insegue l’arte piomba nell’illusione e nella follia.
Poeti e compagnia ha altresì un retroterra ideologico molto forte, dovuto ad una miscela di legittimismo asburgico (Eichendorff era nato nella Slesia superiore, territorio prussiano, ma che manteneva intatte le caratteristiche della precedente sudditanza imperiale agli Asburgo) e cattolicesimo che si palesa in un costante attacco nei confronti del ceto impiegatizio e borghese, visto come elemento destabilizzante e distruttore di una società aristocratica antica e cristallizzata nel tempo. Ecco dunque la critica verso i funzionari della classe media che vivono in una «terribile operosità» senza avere il tempo necessario per attività quali «leggere, pensare, pregare».
Non mancano neppure le beffe che si riservano ai personaggi più sciocchi e ciò, oltre a rendere la lettura più gradevole, consente di intravedere in filigrana gli atroci scherzi a danno dei sempliciotti che abbondano nel Decameron del Boccaccio.
Insomma, siamo davanti ad un libro completo e complesso, un classico in grado di farci interrogare e, contemporaneamente, darci delle risposte, un testo essenziale per chi crede che «la terra è ancora piena di miracoli, solo che noi non vi badiamo più».


(Pubblicato su dirittodicronaca.it, Registrazione Tribunale di Castrovillari (Cs) N. 4/09 del 02/11/2009)

Presentato "Il Vangelo a S. Maria delle Grazie"

di
Mario Gaudio

Una serata di indiscutibile spessore culturale e spirituale si è consumata oggi presso l’aula magna del Liceo Scientifico “Bachelet” di Spezzano Albanese.
L’occasione è stata fornita dalla presentazione del volume Il Vangelo a S. Maria delle Grazie curato da Vincenzo Altomare e Maria Paola Borsetta ed edito da La mongolfiera.
Al centro della manifestazione l’insieme delle testimonianze di coloro che hanno vissuto in prima persona l’esperienza della Comunità di S. Maria delle Grazie di Rossano Calabro, fondata, nell’ormai lontano 1974, da un appassionato Gianni Novello e divenuta, ben presto, luogo di accoglienza, scambio, crescita, confronto e formazione spirituale, umana, culturale e politica.
A moderare il dibattito è stato Franco Pace che, nell’aprire i lavori, ha ricordato come «Santa Maria delle Grazie era un luogo nel quale si imparava ad essere liberi».
Un momento della presentazione de
Il Vangelo a Santa Maria delle Grazie
(Foto di Mario Gaudio
©)

A ruota è seguito il saluto istituzionale della dirigente scolastica che ha sottolineato «l’apertura del “Bachelet” verso qualsiasi iniziativa culturale del luogo e dell’hinterland» mettendo in risalto l’azione catalizzatrice del liceo spezzanese, sempre in prima fila nelle attività legate all’ambito della cultura.
All’intervento della dirigente ha fatto seguito la proiezione di un video nel quale, attraverso le parole del fondatore e le testimonianze di alcuni aderenti alla Comunità, è stato delineato con semplicità, ma in maniera efficace, lo stile di vita e i principi ispiratori della stessa, dove l’accoglienza «senza mai giudizio» era radicata in modo da considerare il nuovo arrivato «non ospite, ma persona da scoprire, che porta il suo mondo in casa» e la preghiera ritmava la giornata sin dal mattino per accompagnare il lavoro e le altre attività formative.
Le considerazioni della curatrice Maria Paola Borsetta e dell’editore Giovanni Spedicati hanno concordato sul fatto che «La Chiesa è tale quando sta unita» e, pertanto, sarebbe risultato più saggio incrementare un simile esperimento di comunità piuttosto che reprimerlo.
È seguita poi la testimonianza di Franco Marchianò, noto studioso arberëshe e partecipe dell’esperienza di Santa Maria delle Grazie, che ha evidenziato la semplicità della suddetta comunità nella quale il leitmotiv era il «Resta con noi Signore perché si fa sera» di evangelica memoria e i sacerdoti in jeans e maglietta lavoravano gomito a gomito con i laici nei vari laboratori di pittura e di iconografia e si cimentavano nella discussione di temi “caldi” quali la pace, il commercio equo e solidale e la lotta alla povertà, trasformando quelle mura nel «luogo in cui la Parola si calava nella storia».
Sulla stessa lunghezza d’onda l’intervento del docente Angelo Luci, anch’egli partecipe di questa esperienza comunitaria, che ha rammentato la capacità di Gianni Novello, all’epoca docente del liceo scientifico spezzanese, di trasformare la consuetudine dell’ora di religione imprimendovi un carattere di interesse e un’accoglienza all’insegna del sorriso che hanno attratto diverse generazioni di studenti.
Gianni Novello, fondatore della
Fraternità di Santa Maria delle Grazie
(Foto di Mario Gaudio
©)

A concludere la costruttiva serata è stato lo stesso fondatore della Fraternità Santa Maria delle Grazie che, tornando indietro nel tempo, ha rievocato l’entusiasmo di monsignor Antonio Cantisani e quello di monsignor Serafino Sprovieri nei confronti della sua opera e ha altresì rammentato la capacità di questi prelati «di capire che essere cristiani significa avere una sorgente interiore da cui attingere». Novello ha poi descritto alcune delle numerosissime attività portate avanti dalla Fraternità di Santa Maria delle Grazie: in essa si tennero, nel drammatico periodo in cui si contrapponevano lotta armata e pacifismo militante, convegni ai quali parteciparono figure di spicco quali Giovanni Moro, figlio dello statista Aldo ucciso dalle Brigate Rosse; nei locali della comunità si sperimentarono forme di rieducazione alternative alle pene detentive; il luogo ha ospitato figure illustri della nostra storia quali don Tonino Bello, Pietro Ingrao, padre Alex Zanotelli e delegazioni giunte appositamente dall’America Latina per discutere il tema della lotta non violenta.
Al termine di questo excursus, Novello ha lanciato un messaggio di augurio auspicando che lo spirito della Comunità continui a vivere calando sempre il Vangelo nella storia e confrontandosi costantemente sulle problematiche che affliggono di volta in volta la nostra società.


(Pubblicato su dirittodicronaca.it, Registrazione Tribunale di Castrovillari (Cs) N. 4/09 del 02/11/2009)

sabato 26 aprile 2014

"Padri e figli": Turgenev e lo scontro di tre generazioni

di 
Mario Gaudio

Il rapporto tra padri e figli è il problema più spinoso che l’uomo necessariamente dovrà affrontare nell’arco della propria esistenza. Essere genitori è un compito estremamente pericoloso: sbagliare potrebbe significare incenerire i sogni dei propri figli e distruggere il loro futuro in maniera definitiva. Essere figli è altrettanto difficile: non riconoscere alcuni valori trasmessi dai propri genitori o calpestare il loro ruolo significherebbe di fatto spezzare le maglie di una catena d’amore che si prolunga nel tempo e che trova i suoi punti di congiunzione nell’atto di dare la vita ad una creatura.
Al di là di questa premessa generale, Turgenev affronta la delicata questione sotto un ulteriore punto di vista: quello del contrasto tra generazioni così diverse che non hanno la volontà e la possibilità di comunicare o, comunque, fare sintesi tra loro.
Ivan Turgenev
Protagonista di Padri e figli è Bazarov, un uomo (o meglio un personaggio) estremo, uno di quelli che si può amare o odiare e che non lascia spazio a soluzioni di compromesso.
Il suo atteggiamento e il suo pensiero rientrano nella categoria del nichilismo (termine coniato proprio da Turgenev per indicare l’«uomo che non s’inchina davanti a nessuna autorità, che non accetta nessun principio come fede, di qualunque rispetto questo principio sia circondato»), mentre le sue azioni sono attorniate da una patina di impertinenza che ne accentua il carattere aspro e polemico.
Bazarov si muove con sicurezza e spavalderia (pur essendo caratterizzato solo da una pars destruens che ne fa, in fin dei conti, un personaggio negativo) sullo sfondo di una Russia agricola ancorata alle vecchie tradizioni, ma stimolata dalle idee liberali degli aristocratici più illuminati e dalle progressive riforme agrarie (contadini salariati che prendono il posto dei servi della gleba).
Il suo atteggiamento critico incarna in pieno il processo di estremizzazione dell’individualismo anarchico che, in quegli anni, lottava per la distruzione dell’ordinamento politico e sociale in vigore nelle sterminate terre russe.
Un simile intento non può che contrastare con chi si pone a difesa delle antiche tradizioni pur lasciando spazio a qualche innovazione attraverso un moderato liberalismo di tipo inglese. Da ciò nasce l’insanabile contrapposizione tra Bazarov e Pavel Petrovič Kirsanov, zio del giovane Arkadij,  nella cui residenza il seguace del nichilismo è ospitato per diverso tempo.
Lo scontro tra questi due sistemi di pensiero profondamente diversi sottende in realtà l’astio tra due generazioni prive di capacità comunicative e culmina in un duello nel quale Bazarov ferisce il vecchio Pavel Petrovič uscendo, solo apparentemente e temporaneamente, vincitore.
Di lì a poco infatti, per una strana legge del contrappasso (l’amante delle scienze naturali è ucciso dalla scienza stessa), lo stesso Bazarov rimarrà ferito durante un’autopsia da lui eseguita sul cadavere di un contadino morto a causa del tifo e contrarrà l’infezione che lo condurrà alla tomba.
Insomma, due “ferite” che possono essere lette anche in chiave metaforica: un liberalismo moderato e riformatore (Pavel Petrovič) che, nonostante qualche ammaccatura, sopravvive e uno spirito rivoluzionario che, al di là dell’apparente vittoria, è destinato a soccombere.
Ad un primo impatto Padri e figli sembra racchiudere tra le pagine l’insanabile contrasto tra due generazioni che culmina in un duello ma, ad una lettura approfondita, è possibile ricondurre la lotta alle pretese di ben tre contendenti.
Padri e figli di
Ivan Turgenev
Esiste infatti una terza generazione che combatte in modo silente ma efficace la sua battaglia, benché si tratti di una competizione persa in partenza. La terza protagonista del romanzo è abbastanza defilata dagli eventi, ma incarna in toto l’ancien régime. Si tratta di Arina Vlas’evna, la madre di Bazarov, «una vera nobile russa del tempo antico», pia e superstiziosa, incline a credere «a ogni genere di presagi, di divinazioni, di scongiuri e di sogni», una donna di vecchio stampo che simboleggia il pensiero di una generazione remota e patriarcale destinata ad essere spazzata via non già dal nichilismo di Bazarov, ma dal moderato e pragmatico liberalismo di Pavel Petrovič.
Anche Arina Vlas’evna combatte il suo duello, uno scontro durissimo con la vita, dal quale esce sconfitta e ferita profondamente per la morte dell’amato figlio Bazarov.
Insomma Padri e figli è il romanzo del contrasto tra idee e valori che risultano incomprensibili nel passaggio da una generazione all’altra; il dettagliato resoconto di un universo privo di dialogo, unico strumento efficace per costruire ponti e abbattere muri nelle nostre società sempre più tecnologiche e sempre meno disposte al confronto.
«[…] non c’è uomo che non abbia un compito, non foss’altro che quello di morire: in questo, e sia pure in questo soltanto, Turgenev è più grande di Tolstoj, che pretendeva di ridurre l’uomo a uomo comune: è più grande di Dostoevskij, che pretendeva il contrario, non vi fossero altro che eroi – demoni o santi» (Franco Cordelli).


 (Pubblicato su dirittodicronaca.it, Registrazione Tribunale di Castrovillari (Cs) N. 4/09 del 02/11/2009)

La voce delle Muse: Giovanni Pascoli

a cura di
Mario Gaudio


X Agosto
San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l’aria tranquilla
arde e cade, perché si gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.

Ritornava una rondine al tetto:
l’uccisero: cadde tra i spini;
ella aveva nel becco un insetto:
la cena dei suoi rondinini.

Ora è là, come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell’ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.

Anche un uomo tornava al suo nido:
l’uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole in dono.

Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.

E tu, Cielo, dall’alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! d’un pianto di stelle lo inondi
quest’atomo opaco del Male!


  Giovanni Pascoli


Alessandro D'Avenia: la realtà dei sogni

di
Mario Gaudio

È consolante sapere che, da Adamo in poi, ognuno di noi vive contemporaneamente in due mondi, creati da un’intelligenza divina che, quasi sicuramente, ha inteso alleviare nel sogno le fatiche e le brutture della realtà.
Ecco dunque gli uomini vivere la doppia esistenza di cittadini del mondo e del sogno, in grado di addormentarsi abbandonando i panni della quotidianità per divenire re, poeti o buffoni e assumere, nell’universo onirico, qualsiasi forma dettata esclusivamente dalla propria fantasia.
È in questo contesto profondo che la vita si alimenta e viene fuori con maggior vigore la forza per affrontare i disagi della realtà che paralizza, in tutta la sua irriverenza, i nostri occhi subito dopo il risveglio.
Alessandro D'Avenia
Pochi uomini, oserei dire gli “eletti” (senza affibbiare al termine alcuna connotazione religiosa), hanno tuttavia appreso il modo di unire l’universo onirico e la quotidianità lasciandosi guidare anche da svegli da un sogno e incidendo profondamente nella storia attraverso un’impresa o un progetto inevitabilmente concepito ad occhi chiusi.
È a questi sognatori, desiderosi di lasciare nel tempo una traccia della propria esistenza terrena, che si rivolge il romanzo di Alessandro D’Avenia.
Scorrendo le pagine di Bianca come il latte rossa come il sangue, il lettore non può far altro che constatare che la vera linfa della vita è la libertà dei sogni, unico mezzo per migliorare se stessi e quella porzione di mondo che si occupa.
Così D’Avenia, raccontandoci una storia triste ma non disperata, fruga nell’animo e nelle abitudini di un gruppo di adolescenti, scovando nel sogno il segreto per sconfiggere i problemi relazionali, i mali esistenziali e le terribili condizioni della malattia e della morte.
È solo nelle parole di un professore assetato di conoscenza e consapevole dell’importanza dei sogni che Leo, il protagonista del romanzo, supera le barriere di un’esistenza fatta di scuola, compiti, chat, musica e motorino per confrontarsi coraggiosamente con la terribile leucemia che, inesorabile, uccide Beatrice, il suo unico grande amore.
Tuttavia, sarà proprio dalla sofferenza di Beatrice a sgorgare, attraverso le parole ricche di fede e intensamente commoventi vergate dalla ragazza su un diario, la nuova felicità di Leo, capace di comprendere che il vero e atroce segreto della vita è quello di amarla sempre e comunque, nonostante qualsiasi avversità.
Bianca come il latte rossa come il sangue è il romanzo della felicità ritrovata, resa ancora più gustosa dal fatto di essere frutto di un lento distillato di esperienze banali o dolorose, necessarie per far comprendere appieno e in maniera duratura l’immenso valore di chi ci sta accanto ricolmandoci di attenzioni e condividendo, con devozione e amore, tanto i momenti fausti quanto quelli infausti.
In ultima analisi, quello di D’Avenia è un romanzo magistrale, fondamentale per capire come l’unico elisir di lunga vita sia il binomio amore/sogno, termini interscambiabili e, senza alcun dubbio, equivalenti.
«Strappare la bellezza ovunque essa sia e regalarla a chi mi sta accanto. Per questo sono al mondo» (Alessandro D’Avenia).


(Pubblicato su lavocedelsavuto.it, Registrazione Tribunale di Cosenza N. 683 del 23/10/2002)

(Pubblicato su dirittodicronaca.it, Registrazione Tribunale di Castrovillari (Cs) N. 4/09 del 02/11/2009)

Parola d'autore: Oscar Wilde


Coloro i quali trovano nelle cose belle significati brutti sono corrotti senza essere attraenti. Questa è una colpa.
Coloro i quali trovano nelle cose belle significati belli sono persone colte. Per questi c’è speranza.
Gli eletti sono coloro per i quali le cose belle significano soltanto bellezza.
Non esistono libri morali o immorali. I libri sono o scritti bene o scritti male: nient’altro.

Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray


"Castelli di rabbia": Baricco tra stranezze e progresso

di
Mario Gaudio

L’immagine alla quale è associabile Castelli di rabbia è senza dubbio quella del buon vino: alla maniera del prezioso nettare, le pagine di Baricco acquistano sapore e colore con il trascorrere del tempo e, in effetti, a più di vent’anni dalla pubblicazione (correva l’anno di grazia 1991), il romanzo in questione assume, attraverso le tematiche trattate, un carattere deciso dinanzi ad una realtà che gradualmente si sgretola.
Lo scrittore piemontese, con abile arte narrativa, riesce a mantenere celata la chiave di lettura del suo romanzo fino alle ultime battute per poi lasciare attonito l’innocente lettore con una soluzione che risulta essere a dir poco inaspettata.
Lo scrittore piemontese
Alessandro Baricco
Le vicende narrate hanno come centro propulsore la cittadina di Quinnipak, curioso rifugio di uomini e donne le cui vite si intersecano quasi a formare una inestricabile ragnatela all’insegna della stranezza. Nulla a Quinnipak richiama la normalità del mondo e la quotidianità: ognuno ha il suo dèmone e la sua storia.
I personaggi consumano le loro esistenze inseguendo inutili sogni, portandosi addosso pesanti fardelli e rasentando (e, a volte, oltrepassando) il delicato confine tra sanità e follia. Ecco allora una sfilata di strambe esistenze la cui colpa è la contraddizione: la bellezza di Jun ha come contrappasso la sua solitudine a causa dei lunghi viaggi del consorte; la ricchezza e l’intraprendenza del signor Rail si scontrano con la fisima delle locomotive e le lunghissime e ingiustificate assenze da casa che denotano un chiaro rifiuto della stabilità; l’onorabilità della vedova Abegg trova il suo inciampo in una storia inesistente e nella «impossibilità di disporre di un felice avvenire» che la induce a costruirsi un falso e «felice passato»; il genio musicale del signor Pekisch si disintegra nelle sue strampalate composizioni per un altrettanto bizzarro strumento denominato “umanofono”.
In mezzo a questa varia umanità di Quinnipak si erge possente il senso del tempo che scorre, con la necessità di numerarlo e l’altrettanto impellente bisogno di renderlo motivo di sviluppo. L’intero romanzo risente di questa ansia di progresso tecnico e spirituale che si concretizza nella filosofia positivista (superba attrice non protagonista di Castelli di rabbia) e nella costruzione delle ferrovie, speranza di una società ancora cristallizzata e campanilistica. Non è un caso che le pagine più intense del libro di Baricco siano effettivamente quelle nelle quali si descrive il rito «elementare e sacro» che si è consumato per anni sulla Grand Junction, una delle prime linee ferroviarie che collegava Londra a Dublino.
Castelli di rabbia di
Alessandro Baricco
Castelli di rabbia si presenta dunque con lo stesso fascino del Crystal Palace, progetto folle e geniale del misterioso e sognatore Hector Horeau (la figura indubbiamente più tragica del romanzo), in grado di far ammirare la realtà attraverso il potere della narrazione che diventa, alla stregua del vetro, capace di «proteggere senza imprigionare…» in modo da «stare in un posto e poter veder ovunque, avere un tetto e vedere il cielo».
Insomma, siamo davanti ad un romanzo di spessore, tremendamente attuale, capace di ricordarci l’immenso potere terapeutico delle storie in un mondo sempre più caotico e sempre meno disposto ad ascoltare.


(Pubblicato su lavocedelsavuto.it, Registrazione Tribunale di Cosenza N. 683 del 23/10/2002)

(Pubblicato su dirittodicronaca.it, Registrazione Tribunale di Castrovillari (Cs) N. 4/09 del 02/11/2009)

Il fascino del Natale nei "Nove appunti" di Giulio Andreotti

di
Mario Gaudio

Nel leggere questo libro ci si sente quasi inopportuni dacché le sue pagine ci conducono nel sancta sanctorum di un uomo enigmatico che, ancora oggi, dall’alto della sua veneranda età, continua ad essere «l’entusiasmo degli uni, lo scandalo degli altri e l’occupazione di tutti».
Nove appunti di Natale getta uno spiraglio di luce sulla vita di Giulio Andreotti, indiscusso protagonista della politica italiana a partire dal secondo dopoguerra, penetrando con discrezione nell’intimità familiare di questo democristiano di ferro che, con la sua moderazione ardita e con la singolare “teoria dell’uomo medio”, ha incarnato in tutto e per tutto la vocazione alla politica e allo Stato. 
Ecco dunque il motivo per cui, come giustamente rileva Federico Roncoroni nella sua introduzione, questo libro si presenta in una veste molto particolare: «[…] ogni flash un Natale, ogni Natale uno scorcio di vita, ogni scorcio di vita un preciso momento sociale e politico della nostra storia, ogni momento sociale e politico uno stato d’animo».
Il senatore a vita Giulio Andreotti
Andreotti, utilizzando una prosa pacata, efficace e sottilmente ironica, frutto di una moderazione non soltanto ideologica ma divenuta stile di vita e di pensiero, racconta, attraverso la forma a lui cara del diario, nove vicende che hanno caratterizzato altrettanti periodi natalizi della sua lunga esistenza.
Il primo Natale di cui il senatore a vita ha memoria è quello del lontano 1921, un periodo di «confusa tristezza» per la perdita del padre, la cui salute era stata compromessa gravemente in guerra; il 1929 è l’anno del primo «discorso pubblico» del piccolo Giulio che, su esortazione della vecchia zia Mariannina (papalina intransigente classe 1854), declama una poesia natalizia dal pulpito della chiesa romana dell’Aracoeli; quello del 1940 è invece il Natale delle preoccupazioni per la famiglia Andreotti a causa del primogenito Francesco, richiamato sul fronte libico, e della giovane moglie, partoriente in una situazione talmente tesa da indurre addirittura il clero ad anticipare al pomeriggio la tradizionale Messa di mezzanotte per rispettare il coprifuoco.
Seguono i racconti del 1943, anno in cui Andreotti assiste, nell’anticamera di monsignor Montini (futuro Papa Paolo VI), ad un frivolo confronto tra due diplomatici rifugiati in Vaticano la cui maggiore preoccupazione, nonostante la grave incertezza del momento, era legata ai criteri di attribuzione di un’onorificenza; del 1945, anno in cui Andreotti, novello sposo, assapora la compagnia natalizia di una suocera «comprensiva» che smentisce la consolidata opinione negativa risalente ad un’antica leggenda che il senatore a vita ci riporta in questi termini: «Anche se è un poco irriguardoso, pare che il Signore per punire San Pietro che avrebbe avuto momenti di incertezza gli guarì la suocera»; e del 1952, l’anno del «Natale sconcertante» in cui la serenità della famiglia Andreotti è turbata da un vecchio compagno d’università che, in maniera truffaldina, riesce a sottrarre del denaro all’ambizioso politico democristiano.
Nove appunti di Natale si conclude con il racconto di altri tre anni estremamente importanti nella vita di Giulio Andreotti: il 1978 è il «Natale tristissimo» in cui, secondo le parole dell’autore, «[…] si chiude l’anno più drammatico della mia vita, per la irrimediabile tragedia di Aldo Moro»; nel 1979 Andreotti assapora «una allegrezza tutta nuova e particolare» per la nascita della sua prima nipotina; infine il 1993 è l’anno del «primo Natale da inquisito» in cui l’ex presidente del consiglio, abituato a rispondere personalmente ai molteplici biglietti di auguri, per evitare di «”corrispondere” con qualche soggetto dubbio» decide di utilizzare un’ambigua espressione della diplomazia vaticana, concludendo le sue lettere con la formula “Con tutta la stima che la S. V. merita”, «[…] che sia molta o nulla, resta imprecisato».
In ultima analisi, Nove appunti di Natale si presenta come un libro gradevolissimo alla lettura e altrettanto interessante nei contenuti, ideale in queste fredde giornate di dicembre per comprendere il fascino che il Natale è in grado di suscitare anche su quegli uomini che i media ci presentano come “inarrivabili”.
Possa questo fascino natalizio orientare le nostre vite verso un nuovo anno di serenità e solidarietà!


(Pubblicato su dirittodicronaca.it, Registrazione Tribunale di Castrovillari (Cs) N. 4/09 del 02/11/2009)

I miei auguri non ipocriti



Tra poche ore anche il 2013 scivolerà nel dimenticatoio della storia e daremo il benvenuto a questo nuovo anno di grazia tra cenoni, brindisi e fuochi d’artificio.
Il mio augurio più sincero e profondo va a tutti coloro che in questo anno mi sono stati accanto con amore o amicizia, sostenendomi, consigliandomi, confrontandosi e regalandomi momenti degni di essere vissuti e ricordati. A queste persone va il mio ringraziamento e la speranza che i nostri cammini possano intrecciarsi sempre più negli anni futuri.
Auguro loro tanta prosperità, serenità, capacità e forza per realizzare tutti i loro desideri, calore umano, sogni e lunghi giorni felici… come direbbe un antico adagio celtico, “possa fiorire il terreno da loro calpestato”.
Lo stesso augurio non posso fare a chi in questo anno quasi trascorso o negli anni precedenti ha ostacolato me o le mie attività con l’inganno, a chi ha invidiato ciò che sono e che faccio, a chi ha ostentato una falsa amicizia, a chi mi ha disprezzato senza una ragione, a chi mi ha fatto intravedere false prospettive lavorative, a chi non ha onorato la parola data, a chi ha accompagnato tratti della mia vita inquinandoli con le sue psicosi o le sue assurde fisime mentali.
Verso questi soggetti non va il mio augurio, ma tutta la mia indifferenza.
Un sincero e commosso ricordo va anche a chi purtroppo non c’è più e contempla dall’alto, nella casa del Padre, le nostre miserie umane pregando con amore per noi.
Saranno pure scomodi, magari aspri, ma senza alcuna ipocrisia: questi sono i miei auguri per il 2014.


Buon anno!!
Tempora bona veniant!

Mario Gaudio


Parola d'autore: Alessandro D'Avenia

Rogo di libri nella Germania nazista

È tardi. Fuori c’è il nero della notte e la mia mente è bianca. Cerco di trasformarmi in uno di quei saccheggiatori e mi chiedo cosa voglio ottenere dando fuoco ai libri che contengono.
Mi aggiro per le strade polverose di Roma, di Alessandria e di Bisanzio, che poi ho scoperto essere diventata Costantinopoli e poi Istanbul, e in mezzo agli strepiti e alle urla della gente do fuoco a migliaia di libri. Mi sbarazzo di tutti quei sogni di carta e li trasformo in cenere. Li trasformo in fumo bianco.
Ecco la risposta. Incenerire i sogni. Bruciare i sogni è il segreto per abbattere definitivamente i propri nemici, perché non trovino più la forza di rialzarsi e ricominciare. Non sognino le cose belle delle loro città, delle vite altrui, non sognino i racconti di altri, così pieni di libertà e di amore. Non sognino più nulla. Se non permetti alle persone di sognare, le rendi schiave. E io, saccheggiatore di città, adesso ho bisogno solo di schiavi, per regnare tranquillo e indisturbato.
E così, non rimanga parola su parola. Ma solo bianca cenere dei sogni antichi. Questa è la distruzione più crudele: rubare i sogni alla gente. Lager pieni di uomini bruciati con i loro sogni. Nazisti ladri di sogni. Quando non hai sogni li rubi agli altri, perché non li abbiano neanche loro.
L’invidia ti brucia il cuore e quel fuoco divora tutto…

Alessandro D’Avenia, Bianca come il latte rossa come il sangue



"Niente di nuovo sul fronte occidentale": un manifesto del pacifismo moderno

di
Mario Gaudio

Niente di nuovo sul fronte occidentale è, senza dubbio, un capolavoro della letteratura europea di cui ancora oggi poco si parla, presumibilmente per i suoi contenuti scomodi e per la storia travagliata che ha accompagnato la nascita e la diffusione di questo romanzo.
Erich Maria Remarque lo scrisse nel 1927, in sole sei settimane, infondendovi quella che era stata la sua terribile esperienza dacché, costretto ad interrompere gli studi, fu catapultato sul fronte presso Verdun (Francia nordoccidentale), teatro di una delle più sanguinose e logoranti battaglie della prima guerra mondiale.
Il carattere antimilitarista del romanzo non poteva certo trovare terreno favorevole in un luogo e in un’epoca quale la Germania degli anni Trenta e Remarque fu immediatamente accusato di disfattismo e antipatriottismo da parte dei conservatori e dei nazionalsocialisti. Ma le persecuzioni contro l’autore non si limitarono a questo: nel 1930, durante la proiezione del film che il regista statunitense Lewis Milestone trasse dal suddetto romanzo, i nazisti provocarono disordini e scontri a Berlino, costringendo la censura ad intervenire attraverso un divieto di proiezione della pellicola; nel 1933 la barbarie raggiunse il suo culmine e i libri di Remarque furono pubblicamente arsi sul rogo; nel 1938 l’autore fu addirittura privato della cittadinanza tedesca.
Lo scrittore Erich Maria Remarque
Negli anni in questione, la guerra si presentiva nell’aria e, in maniera più o meno esplicita, tutti erano consapevoli in Germania che gli orrori di qualche decennio prima si sarebbero ripetuti a breve. Dinanzi a tale prospettiva Remarque fece udire la sua voce attraverso questo romanzo il cui scopo è esplicitamente dichiarato da una sorta di aforisma posto all’inizio della narrazione: «Questo libro non vuol essere né un atto d’accusa né una confessione. Esso non è che il tentativo di raffigurare una generazione la quale – anche se sfuggì alle granate – venne distrutta dalla guerra».
Come Remarque, anche il protagonista del romanzo (Paolo Bäumer) e i suoi amici sono strappati dai banchi di scuola e condotti al fronte, nonostante il loro animo sia ancora legato al periodo dell’adolescenza e dello studio: Müller, ad esempio, «si tira dietro ancora i libri di testo, sogna sessioni supplementari d’esame e sotto il fuoco tambureggiante biascica definizioni di fisica».
Essere sul fronte significa necessariamente maturare e indurire il proprio carattere, passando dalla stupore iniziale all’esasperazione, per approdare infine all’indifferenza che induce i giovani soldati a «riconoscere che ciò che conta non è tanto lo spirito quanto la spazzola del lucido, non il pensiero ma il sistema, non la libertà ma lo “scattare”» e a «concepire come un portalettere, divenuto per caso un superiore gallonato, potesse esercitare […] un potere maggiore di quello che prima non avessero […] tutti gli spiriti magni della civiltà – da Platone a Goethe – messi insieme».
Essere in guerra significa anche rafforzare a tutti i costi l’istinto di sopravvivenza, in modo tale che «al fischio della prima granata, al primo strappo dell’aria solcata dalle detonazioni, […] tutta la persona si trova in piena efficienza» a causa di «una specie di contatto elettrico» che percorre il sangue del soldato. Alla stessa maniera è necessario sviluppare un legame con la terra: «A nessuno la terra è amica quanto al fante. Quando egli vi si aggrappa, lungamente, violentemente; quando col volto e con le membra in lei si affonda nell’angoscia mortale del fuoco, allora essa è il suo unico amico, gli è fratello, gli è madre; nel silenzio di lei egli soffoca il suo terrore e i suoi gridi, nel suo rifugio protettore essa lo accoglie, poi lo lascia andare, perché viva e corra per altri dieci secondi, e poi lo abbraccia di nuovo, e spesso per sempre».
Niente di nuovo sul fronte
occidentale
di Erich Maria
Remarque
Nonostante queste precauzioni, la guerra è morte, mutilazione, attesa snervante, perdita di intimità e, soprattutto, della visione spensierata del mondo che Paolo Bäumer e i suoi amici avevano in gioventù («Noi non vedevamo limiti, il mondo intorno a noi non aveva fine, e nel sangue palpitava l’attesa, che ci faceva una cosa sola con lo scorrere dei nostri giorni»).
L’unico rimedio da adottare sul fronte è la sospensione della riflessione su ciò che sta accadendo; il protagonista del romanzo candidamente confessa ciò dicendo: «In realtà non dimentichiamo nulla. Finché siamo in guerra, le giornate al fronte, a mano a mano che passano, precipitano, ad una ad una come pietre, nel fondo della nostra coscienza, troppo gravi perché pel momento ci possa riflettere sopra. Se lo facessimo, esse ci ucciderebbero; infatti ho sempre osservato che l’orrore si può sopportare finché si cerca semplicemente di scansarlo: ma esso uccide, quando ci si ripensa».
Il non pensare però, molto spesso, non serve a stornare le beffe che la guerra riserva al soldato: Bäumer e i suoi amici che prima di un’offensiva vedono accatastate accanto ad un edificio distrutto «una doppia muraglia di casse da morto, nuove, chiare, appena piallate» che «odorano ancora di resina, di pino, di bosco» non possono far altro che commentare il fatto con freddure da caserma; il giovane protagonista muore, per beffa degli eventi, nell’ottobre 1918 (quando ormai si vocifera a proposito di un imminente armistizio), «in una giornata così calma e silenziosa su tutto il fronte, che il bollettino del Comando Supremo si limitava a queste parole: “Niente di nuovo sul fronte occidentale”».
La guerra, con il suo carico di distruzione, giganteggia dunque nel romanzo in cui il grido disperato e lungimirante di Remarque si lamenta del fatto che «migliaia d’anni di civiltà non sono nemmeno riusciti ad impedire che questi fiumi di sangue scorrano».
«La guerra non è mai una fatalità, essa è sempre e solo una sconfitta dell’umanità» (Giovanni Paolo II).
  
(Pubblicato su lavocedelsavuto.it, Registrazione Tribunale di Cosenza N. 683 del 23/10/2002)

Parola d'autore: Eduardo De Filippo



[…] Siamo pupi, caro signor Federico! Lo spirito divino entra in noi e si fa pupo. Pupo io, pupo voi, pupi tutti! E una volta che uno è nato questa specie di pupo per volontà divina, uno s’avarria mettere ll’anema in pace, e avvaria dicere: “Così sia!” – E invece, nossignore! Ognuno poi si fa pupo per conto suo: quel pupo che può essere o che si crede di essere.
E allora accumenciano ‘e guaie! Perché ogni pupo, cara signora, vuole portato il suo rispetto, non tanto per quello che dentro di sé si crede, quanto per la parte che deve rappresentare fuori.
Da solo a solo, nessuno è contento della sua parte; ognuno pigliarria ‘o pupo suo e ‘o sputasse ‘nfaccia. Ma dagli altri, no, dagli altri lo vuole rispettato…

Eduardo De Filippo, Il berretto a sonagli 
(versione in napoletano di un’opera di Luigi Pirandello)


1 maggio 2013: la festa dei lavoratori nella terra dei disoccupati

di
Mario Gaudio

Anche quest’anno, con estrema puntualità, è giunta la ricorrenza del primo maggio, giorno estremamente gradito a studenti e lavoratori per sospendere temporaneamente le loro occupazioni e godersi, visto il clima favorevole, i piaceri di una scampagnata o di un semplice momento di riposo.
Dietro questo quadretto idillico si agitano però fortissime correnti che deturpano la tanto gradita ricorrenza e ne inficiano addirittura il senso.
Celebrare la festa dei lavoratori in questo periodo sembra quasi una enorme e sadica contraddizione ma, nonostante il lerciume sociale e politico nel quale ci troviamo immersi, pochi hanno il coraggio di denunciare l’ipocrisia di questo rito pseudodemocratico e di gridare che il re è nudo e l’attuale condizione italiana ed europea è quella metaforicamente rappresentata dal possente gigante dai piedi d’argilla.
Certo, qualche malevolo potrebbe pensare che il primo maggio sia stato ormai svuotato dei suoi altissimi significati civili per essere ridotto ad un’accozzaglia di artisti (alcuni anche eccellenti) che si esibiscono in un maxiconcerto mandando in delirio torme di giovani affluiti a Roma, ma la situazione non è per fortuna questa: è decisamente peggiore.
È significativo e importante infatti festeggiare il lavoro e i lavoratori nel momento in cui i tassi di disoccupazione (in particolar modo quelli giovanili e femminili) sono alle stelle; la crisi economica attanaglia il nostro Paese e l’intero sistema mondiale; molti imprenditori si tolgono la vita per evitare l’onta del fallimento; nelle campagne (soprattutto del Meridione) lavorano migliaia di braccianti (in particolar modo extracomunitari) che, per pochi spiccioli, trascorrono le giornate intere a raccogliere i frutti che giungeranno sulle nostre tavole; gli esodati (figli della riforma Fornero, paragonabile per la sua demenza solo al “porcellum” di Calderoli) cercano mille espedienti per arrivare a fine mese dopo una vita di sacrifici; i tagli indiscriminati al Sistema Sanitario Nazionale e all’istruzione e alla ricerca fatti da chi governa e, nello stesso tempo, gestisce o possiede scuole o strutture sanitarie private; l’incapacità degli amministratori di spendere in maniera razionale le risorse economiche elargite dall’Unione Europea con la conseguente necessità di restituire i finanziamenti non utilizzati a Bruxelles.
Ma, se sul fronte economico la situazione è questa, per fortuna a livello politico vale la pena festeggiare e tutelare il lavoro con l’apposita ricorrenza del primo maggio. È edificante sapere che il nuovo Presidente del Consiglio non compariva neppure tra i candidati alla suddetta carica i cui nomi erano stampati sulle schede elettorali che, solo qualche mese addietro, abbiamo imbrattato per esprimere una volontà popolare poi felicemente violata; così come é soddisfacente vedere seduti uno accanto all’altro i nuovi ministri che fino a qualche giorno fa si azzannavano politicamente e mediaticamente per respingere l’ipotesi di un governo Pd-Pdl che, analizzati i fatti, può addirittura essere considerato un monocolore marrone, con chiaro richiamo ad una sostanza che certamente non è la nutella.
Non si può neppure dimenticare che, di questi tempi, è necessaria una grande fede, dal momento che occorre scomodare costantemente il buon Dio per mantenere la giovinezza e freschezza di cui gode attualmente il nostro Presidente della Repubblica, senza tralasciare ulteriori preci per evitare una seconda ondata di lanzichenecchi/grillini in grado di deturpare le ultime vestigia di una repubblica felice distrutta ai tempi di Tangentopoli.
In fondo queste poche righe sono cariche di ironia ma, appropriandomi delle parole del buon vecchio Giulio Andreotti, «l’ironia è la migliore cura per non morire, e le cure per non morire sono sempre atroci». Per questo motivo non posso far altro che augurare un buon primo maggio a tutti voi!


(Pubblicato su www.spezzanoalbanese.weboggi.it, Registrazione Tribunale di Catanzaro N. 1078/2011 – ROC nr. 21658)

La voce delle Muse: Nazim Hikmet

a cura di
Mario Gaudio


La vita non è uno scherzo.
Prendila sul serio.
Ma sul serio a tal punto
che messo contro un muro, ad esempio, le mani legate
o dentro un laboratorio
col camice bianco e gli occhiali
tu muoia affinché vivano gli uomini
gli uomini di cui non conosci la faccia
e morrai sapendo
che nulla è più bello, più vero della vita.
Prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che a settant’anni, ad esempio, pianterai degli ulivi
non perché restino ai tuoi figli
ma perché non crederai alla morte
pur temendola,
e la vita sulla bilancia
peserà di più.

Nazim Hikmet

Tombe e assurde filosofie nel nuovo romanzo di Arianna Gasbarro

di
Mario Gaudio

Se questo libro fosse capitato tra le mani del buon vecchio Freud, gli avrebbe dato di sicuro un gran bel da fare: Arianna Gasbarro affastella infatti tra le pagine del suo romanzo diverse assurde teorie che celano, in realtà, interessanti dinamiche psicologiche.
Il protagonista di Requiem del Dodo è Mattia Rinaldi, un giovane regista che si trova a Londra per realizzare un documentario naturalistico per bambini; un’occupazione che per lui, ambizioso e desideroso di realizzare un capolavoro cinematografico in grado di affollare i botteghini, risulta essere profondamente frustrante. 
Questo stato d’animo di torbida insoddisfazione è sapientemente reso dalla Gasbarro nella struttura del suo romanzo, dacché si susseguono le parti propriamente narrative e quelle che potremmo piuttosto definire come “appunti di regia” in quanto contengono gli abbozzi di soggetti cinematografici partoriti dalla fantasia creativa di Mattia.
Tale andamento narrativo ondulatorio, in cui si mescolano e si confondono realtà e finzione da un lato e vita e arte dall’altro, ricorda molto da vicino le scene di The dreamers, film di successo del 2003 in cui il regista Bernardo Bertolucci riproduce la cinefilia dei tre protagonisti attraverso il serrato susseguirsi di immagini rappresentanti la vita e le vicende dei soggetti in questione e spezzoni di vecchie pellicole che essi si divertono ad imitare e, dunque, a rivivere.
Requiem del Dodo 
di Arianna Gasbarro
Anche nel personaggio di Mattia Rinaldi la cinefilia regna sovrana, ma inficiata da un lutto che il giovane ancora non è stato in grado di elaborare: l’uccisione dell’amico pittore Oscar ad opera di uno squilibrato incontrato casualmente per le strade di New York.
Durante il soggiorno londinese, tra piogge incessanti, freddo insopportabile e boccali di birra, Mattia ritrova Mia, una vecchia compagna di liceo che sbarca il lunario travestendosi da dodo (antico volatile estinto) durante i documentari girati al Natural History Museum e facendo la tomba-sitter, ovvero una sorta di badante dei sepolcri su incarico delle famiglie dell’estinto.
Questo incontro sarà cruciale per la vita e l’ispirazione del giovane e ambizioso regista. Mia è una ragazza a dir poco «irrazionalizzabile» e «irrazionalizzante» che, passeggiando tra lapidi sbilenche, angeli marmorei e terra smossa da poco, ha elaborato un’assurda filosofia, l’«unico credo possibile», su presunti flussi energetici che impregnano i cimiteri e possono essere positivamente captati da chi li visita.
La morte è l’indiscussa protagonista della vita e dei pensieri di Mia, a tal punto che un pessimismo disumano e globale giunge ad impregnare le pagine del romanzo in questione ispirando nella Gasbarro simili affermazioni: «Non siamo altro che carne e sangue in corsa verso l’oblio»; «Tutto è macerie […]»; «Siamo tutti afflitti da una malattia terminale, sin dalla nascita».
Ma non è tutto: assurde teorie sull’origine dei tumori e dei terremoti e constatazioni atee e anticlericali, degne delle peggiori esternazioni ideologiche di Piergiorgio Odifreddi, svalutano nettamente la portata culturale  e l’equilibrio stilistico di Requiem del Dodo.
Un’analisi a parte merita invece il finale della vicenda che si apre ad una particolare chiave interpretativa celata in filigrana e difficilmente individuabile se non si conosce una moderna leggenda metropolitana diffusa nella cultura angloamericana che racconta la storia nota come “autostoppista fantasma”. Una delle tante versioni in circolazione narra che una ragazza, dopo aver fatto l’autostop, sale a bordo di un auto indicando al conducente il luogo di un potenziale pericolo (luogo in cui in precedenza è realmente accaduto un incidente stradale) e facendosi poi riaccompagnare a casa (di solito l’abitazione è situata nei pressi di un cimitero). Scendendo dalla macchina, l’autostoppista è solita lasciare sui sedili un oggetto personale che consente poi al conducente di risalire ad un determinato indirizzo in cui si scopre sia vissuta una ragazza somigliante perfettamente a quella accompagnata in precedenza e morta in un incidente stradale proprio nel luogo di potenziale pericolo indicato dall’autostoppista.
Di questa leggenda, Requiem del Dodo mantiene tra le righe almeno quattro tratti salienti: in primis Mattia rincontra per caso Mia dopo tanti anni nei quali si era persa ogni traccia di lei, dopo che aveva «trascinati tutti in un pub ad affogare nella birra la gioia per i suoi diciotto anni» (potremmo addirittura maliziosamente ipotizzare che la ragazza sia deceduta proprio in un incidente automobilistico avvenuto subito dopo la festa a causa dell’ubriachezza); in secundis Mia aiuta con le sue riflessioni l’ormai fievole vena creativa di Mattia che, una volta terminata la vicenda,  deciderà di trasformare l’esperienza vissuta nel soggetto destinato al suo film (come non pensare in questo caso all’aiuto dell’autostoppista fantasma per far evitare un pericolo al generoso autista che l’ha accolta a bordo); in terzo luogo anche Mia, sebbene la cosa non sia esplicitamente detta dall’autrice, lascia a Mattia una traccia tangibile del suo passaggio: la sciarpa celeste che nelle prime pagine la ragazza porta al collo la si ritrova nelle ultime pagine del romanzo addosso al giovane regista; infine Mattia si reca presso quella che Mia aveva indicato come la sua residenza scoprendo, con sconforto, che, in realtà, da oltre un decennio vi abita una famiglia che ignora totalmente l’esistenza della sua amica.
In ultima analisi, Requiem del Dodo è un romanzo inquietante, strambo sotto certi aspetti, ma degno di essere letto per via di una trama a volte monotona, ma mai banale, che, nel finale, è riscattata dalla fusione tra realtà e leggenda, tra vita e morte, desiderio e aiuto.


(Pubblicato su dirittodicronaca.it, Registrazione Tribunale di Castrovillari (Cs) N. 4/09 del 02/11/2009)

venerdì 25 aprile 2014

"Come difendersi dal diavolo": il problema del Male nella nostra società

di 
Mario Gaudio

Tempo addietro, sulle colonne di questa stessa testata, ebbi modo di recensire Memorie di un esorcista, testo estremamente interessante, frutto di un’intervista condotta da Marco Tosatti a padre Gabriele Amorth, uno dei più noti esorcisti a livello internazionale. 
Oggi, la lettura di un curioso reportage mi ha indotto a ritornare sul tema e ad approfondirlo attraverso nuovi elementi perfettamente sintetizzati da Patrizia Cattaneo nel suo Come difendersi dal diavolo. Su una nota rivista italiana di carattere storico è comparso, a firma di Marta Erba, un dettagliato articolo, intitolato Codice celeste, nel quale la giornalista tracciava in maniera sintetica, ma completa, una breve storia dell’astrologia a partire dalle origini mesopotamiche fino all’avvento di programmi informatici (quali Astroflash) «che sfornano oroscopi con velocità e precisione». La scrittrice conclude il suo articolo con una considerazione estremamente ambigua: «Per orientarsi nella complessità delle relazioni umane, insomma, una mappa fittizia può essere meglio di nessuna mappa». 
Come difendersi dal diavolo
di Patrizia Cattaneo
Tale constatazione ha suscitato in me, ignaro lettore, una certa (giustificata) perplessità dacché, tradotto in soldoni, la giornalista afferma che nel viaggio della vita è meglio far uso di una mappa sicuramente falsa (le previsioni degli oroscopi) piuttosto che procedere avendo per maestra l’esperienza e per motore la curiosità. Tuttavia, le parole di Marta Erba mi hanno, al contempo, illuminato sulla necessità di capire e divulgare il problema del male legato a queste forme fallaci di divinazione.
Un ottimo strumento per analizzare la questione è, senza alcun dubbio, Come difendersi dal diavolo, libro-inchiesta nato dai colloqui dell’autrice (Patrizia Cattaneo) con padre Cipriano De Meo, decano degli esorcisti e Presidente dell’Associazione Internazionale degli Esorcisti. Nel suddetto testo, infatti, il problema del male non solo è affrontato da un punto di vista filosofico-religioso, ma si procede ad un’attenta ricerca dei canali attraverso i quali il male si diffonde nel mondo: tra questi compaiono indiscutibilmente maghi, cartomanti, oroscopi e divinazioni varie.
Il fenomeno in questione risulta essere in allarmante incremento giacché fior di professionisti (che dunque si presuppone abbiano un elevato grado di istruzione e di formazione culturale) sperperano ingenti patrimoni presso tali operatori dell’occulto che, nel migliore dei casi, sono semplici truffatori dotati di una buona dose di eloquenza, faccia tosta e un’infarinatura di psicologia, ma, nella peggiore delle ipotesi, si tratta di persone senza scrupolo che hanno votato al Male la loro vita attraverso legami esoterici con il diavolo.
Così sintetizzate le vicende raccolte nel libro di Patrizia Cattaneo potrebbero sembrare superstizioni di altri tempi che magari richiamano alla mente qualche fumosa (in tutti i sensi) vicenda da Santa Inquisizione, ma il veder materializzare dal nulla, sotto gli occhi increduli di numerosi testimoni, i più svariati oggetti (chiodi, pietre colorate, pezzi di metallo e di vetro ecc.) a partire dalla saliva del posseduto che reagisce alla forza delle benedizioni e delle preghiere dell’esorcista sicuramente può indurre a cambiare idea e a maturare la convinzione secondo cui il Male non solo esiste (constatazione banale), ma ha anche un artefice diabolico alla base.
Come difendersi dal diavolo è dunque una lungimirante raccolta di esperienze e, nello stesso tempo, di ammonimenti: basta un minimo di spirito d’osservazione e consapevolezza del problema per accorgerci che le seduzioni del male molto spesso sono sotto i nostri occhi attraverso «[…] giochi di spiritismo, fumetti e libri satanici, capi di abbigliamento con distintivi diabolici, scritte e immagini blasfeme e ingiuriose verso la religione cattolica, croci rovesciate e così via», senza dimenticare che «alcuni brani musicali sono infatti veri e propri inni al principe delle tenebre, talvolta mascherati con la tecnica subliminale o del backmasking […]».
In ultima analisi, il libro di Patrizia Cattaneo, lungi dall’essere un tentativo di instaurare un clima da caccia alle streghe, è una riuscita diagnosi di un problema che molto spesso la nostra società asseconda o che al massimo etichetta come “superstizioso” mentre, in realtà, è di più complessa e infida natura.
«Viviamo tutti nel fango, ma alcuni di noi hanno gli occhi rivolti alle stelle» scriveva Oscar Wilde: l’importante è non credere che quelle stelle possano determinare il corso della nostra vita.


 (Pubblicato su dirittodicronaca.it, Registrazione Tribunale di Castrovillari (Cs) N. 4/09 del 02/11/2009)