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sabato 26 aprile 2014

"Niente di nuovo sul fronte occidentale": un manifesto del pacifismo moderno

di
Mario Gaudio

Niente di nuovo sul fronte occidentale è, senza dubbio, un capolavoro della letteratura europea di cui ancora oggi poco si parla, presumibilmente per i suoi contenuti scomodi e per la storia travagliata che ha accompagnato la nascita e la diffusione di questo romanzo.
Erich Maria Remarque lo scrisse nel 1927, in sole sei settimane, infondendovi quella che era stata la sua terribile esperienza dacché, costretto ad interrompere gli studi, fu catapultato sul fronte presso Verdun (Francia nordoccidentale), teatro di una delle più sanguinose e logoranti battaglie della prima guerra mondiale.
Il carattere antimilitarista del romanzo non poteva certo trovare terreno favorevole in un luogo e in un’epoca quale la Germania degli anni Trenta e Remarque fu immediatamente accusato di disfattismo e antipatriottismo da parte dei conservatori e dei nazionalsocialisti. Ma le persecuzioni contro l’autore non si limitarono a questo: nel 1930, durante la proiezione del film che il regista statunitense Lewis Milestone trasse dal suddetto romanzo, i nazisti provocarono disordini e scontri a Berlino, costringendo la censura ad intervenire attraverso un divieto di proiezione della pellicola; nel 1933 la barbarie raggiunse il suo culmine e i libri di Remarque furono pubblicamente arsi sul rogo; nel 1938 l’autore fu addirittura privato della cittadinanza tedesca.
Lo scrittore Erich Maria Remarque
Negli anni in questione, la guerra si presentiva nell’aria e, in maniera più o meno esplicita, tutti erano consapevoli in Germania che gli orrori di qualche decennio prima si sarebbero ripetuti a breve. Dinanzi a tale prospettiva Remarque fece udire la sua voce attraverso questo romanzo il cui scopo è esplicitamente dichiarato da una sorta di aforisma posto all’inizio della narrazione: «Questo libro non vuol essere né un atto d’accusa né una confessione. Esso non è che il tentativo di raffigurare una generazione la quale – anche se sfuggì alle granate – venne distrutta dalla guerra».
Come Remarque, anche il protagonista del romanzo (Paolo Bäumer) e i suoi amici sono strappati dai banchi di scuola e condotti al fronte, nonostante il loro animo sia ancora legato al periodo dell’adolescenza e dello studio: Müller, ad esempio, «si tira dietro ancora i libri di testo, sogna sessioni supplementari d’esame e sotto il fuoco tambureggiante biascica definizioni di fisica».
Essere sul fronte significa necessariamente maturare e indurire il proprio carattere, passando dalla stupore iniziale all’esasperazione, per approdare infine all’indifferenza che induce i giovani soldati a «riconoscere che ciò che conta non è tanto lo spirito quanto la spazzola del lucido, non il pensiero ma il sistema, non la libertà ma lo “scattare”» e a «concepire come un portalettere, divenuto per caso un superiore gallonato, potesse esercitare […] un potere maggiore di quello che prima non avessero […] tutti gli spiriti magni della civiltà – da Platone a Goethe – messi insieme».
Essere in guerra significa anche rafforzare a tutti i costi l’istinto di sopravvivenza, in modo tale che «al fischio della prima granata, al primo strappo dell’aria solcata dalle detonazioni, […] tutta la persona si trova in piena efficienza» a causa di «una specie di contatto elettrico» che percorre il sangue del soldato. Alla stessa maniera è necessario sviluppare un legame con la terra: «A nessuno la terra è amica quanto al fante. Quando egli vi si aggrappa, lungamente, violentemente; quando col volto e con le membra in lei si affonda nell’angoscia mortale del fuoco, allora essa è il suo unico amico, gli è fratello, gli è madre; nel silenzio di lei egli soffoca il suo terrore e i suoi gridi, nel suo rifugio protettore essa lo accoglie, poi lo lascia andare, perché viva e corra per altri dieci secondi, e poi lo abbraccia di nuovo, e spesso per sempre».
Niente di nuovo sul fronte
occidentale
di Erich Maria
Remarque
Nonostante queste precauzioni, la guerra è morte, mutilazione, attesa snervante, perdita di intimità e, soprattutto, della visione spensierata del mondo che Paolo Bäumer e i suoi amici avevano in gioventù («Noi non vedevamo limiti, il mondo intorno a noi non aveva fine, e nel sangue palpitava l’attesa, che ci faceva una cosa sola con lo scorrere dei nostri giorni»).
L’unico rimedio da adottare sul fronte è la sospensione della riflessione su ciò che sta accadendo; il protagonista del romanzo candidamente confessa ciò dicendo: «In realtà non dimentichiamo nulla. Finché siamo in guerra, le giornate al fronte, a mano a mano che passano, precipitano, ad una ad una come pietre, nel fondo della nostra coscienza, troppo gravi perché pel momento ci possa riflettere sopra. Se lo facessimo, esse ci ucciderebbero; infatti ho sempre osservato che l’orrore si può sopportare finché si cerca semplicemente di scansarlo: ma esso uccide, quando ci si ripensa».
Il non pensare però, molto spesso, non serve a stornare le beffe che la guerra riserva al soldato: Bäumer e i suoi amici che prima di un’offensiva vedono accatastate accanto ad un edificio distrutto «una doppia muraglia di casse da morto, nuove, chiare, appena piallate» che «odorano ancora di resina, di pino, di bosco» non possono far altro che commentare il fatto con freddure da caserma; il giovane protagonista muore, per beffa degli eventi, nell’ottobre 1918 (quando ormai si vocifera a proposito di un imminente armistizio), «in una giornata così calma e silenziosa su tutto il fronte, che il bollettino del Comando Supremo si limitava a queste parole: “Niente di nuovo sul fronte occidentale”».
La guerra, con il suo carico di distruzione, giganteggia dunque nel romanzo in cui il grido disperato e lungimirante di Remarque si lamenta del fatto che «migliaia d’anni di civiltà non sono nemmeno riusciti ad impedire che questi fiumi di sangue scorrano».
«La guerra non è mai una fatalità, essa è sempre e solo una sconfitta dell’umanità» (Giovanni Paolo II).
  
(Pubblicato su lavocedelsavuto.it, Registrazione Tribunale di Cosenza N. 683 del 23/10/2002)

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