di
Mario Gaudio
Niente di nuovo sul fronte occidentale è, senza dubbio,
un capolavoro della letteratura europea di cui ancora oggi poco si parla,
presumibilmente per i suoi contenuti scomodi e per la storia travagliata che ha
accompagnato la nascita e la diffusione di questo romanzo.
Erich Maria Remarque lo scrisse nel 1927, in sole sei
settimane, infondendovi quella che era stata la sua terribile esperienza
dacché, costretto ad interrompere gli studi, fu catapultato sul fronte presso
Verdun (Francia nordoccidentale), teatro di una delle più sanguinose e logoranti
battaglie della prima guerra mondiale.
Il carattere antimilitarista del romanzo non poteva certo
trovare terreno favorevole in un luogo e in un’epoca quale la Germania degli
anni Trenta e Remarque fu immediatamente accusato di disfattismo e antipatriottismo
da parte dei conservatori e dei nazionalsocialisti. Ma le persecuzioni contro
l’autore non si limitarono a questo: nel 1930, durante la proiezione del film
che il regista statunitense Lewis Milestone trasse dal suddetto romanzo, i
nazisti provocarono disordini e scontri a Berlino, costringendo la censura ad
intervenire attraverso un divieto di proiezione della pellicola; nel 1933 la
barbarie raggiunse il suo culmine e i libri di Remarque furono pubblicamente
arsi sul rogo; nel 1938 l’autore fu addirittura privato della cittadinanza
tedesca.
Lo scrittore Erich Maria Remarque |
Negli anni in questione, la guerra si presentiva nell’aria e,
in maniera più o meno esplicita, tutti erano consapevoli in Germania che gli
orrori di qualche decennio prima si sarebbero ripetuti a breve. Dinanzi a tale
prospettiva Remarque fece udire la sua voce attraverso questo romanzo il cui
scopo è esplicitamente dichiarato da una sorta di aforisma posto all’inizio
della narrazione: «Questo libro non vuol essere né un atto d’accusa né una
confessione. Esso non è che il tentativo di raffigurare una generazione la
quale – anche se sfuggì alle granate – venne distrutta dalla guerra».
Come Remarque, anche il protagonista del romanzo (Paolo
Bäumer) e i suoi amici sono strappati dai banchi di scuola e condotti al
fronte, nonostante il loro animo sia ancora legato al periodo dell’adolescenza
e dello studio: Müller, ad esempio, «si tira dietro ancora i libri di testo,
sogna sessioni supplementari d’esame e sotto il fuoco tambureggiante biascica
definizioni di fisica».
Essere sul fronte significa necessariamente maturare e
indurire il proprio carattere, passando dalla stupore iniziale all’esasperazione, per approdare infine all’indifferenza che induce i giovani soldati a
«riconoscere che ciò che conta non è tanto lo spirito quanto la spazzola del
lucido, non il pensiero ma il sistema, non la libertà ma lo “scattare”» e a
«concepire come un portalettere, divenuto per caso un superiore gallonato,
potesse esercitare […] un potere maggiore di quello che prima non avessero […]
tutti gli spiriti magni della civiltà – da Platone a Goethe – messi insieme».
Essere in guerra significa anche rafforzare a tutti i costi
l’istinto di sopravvivenza, in modo tale che «al fischio della prima granata, al
primo strappo dell’aria solcata dalle detonazioni, […] tutta la persona si
trova in piena efficienza» a causa di «una specie di contatto elettrico» che
percorre il sangue del soldato. Alla stessa maniera è necessario sviluppare un
legame con la terra: «A nessuno la terra è amica quanto al fante. Quando egli
vi si aggrappa, lungamente, violentemente; quando col volto e con le membra in
lei si affonda nell’angoscia mortale del fuoco, allora essa è il suo unico
amico, gli è fratello, gli è madre; nel silenzio di lei egli soffoca il suo
terrore e i suoi gridi, nel suo rifugio protettore essa lo accoglie, poi lo
lascia andare, perché viva e corra per altri dieci secondi, e poi lo abbraccia
di nuovo, e spesso per sempre».
Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque |
Nonostante queste precauzioni, la guerra è morte,
mutilazione, attesa snervante, perdita di intimità e, soprattutto, della
visione spensierata del mondo che Paolo Bäumer e i suoi amici avevano in
gioventù («Noi non vedevamo limiti, il mondo intorno a noi non aveva fine, e
nel sangue palpitava l’attesa, che ci faceva una cosa sola con lo scorrere dei
nostri giorni»).
L’unico rimedio da adottare sul fronte è la sospensione
della riflessione su ciò che sta accadendo; il protagonista del romanzo
candidamente confessa ciò dicendo: «In realtà non dimentichiamo nulla. Finché
siamo in guerra, le giornate al fronte, a mano a mano che passano, precipitano,
ad una ad una come pietre, nel fondo della nostra coscienza, troppo gravi
perché pel momento ci possa riflettere sopra. Se lo facessimo, esse ci
ucciderebbero; infatti ho sempre osservato che l’orrore si può sopportare
finché si cerca semplicemente di scansarlo: ma esso uccide, quando ci si
ripensa».
Il non pensare però, molto spesso, non serve a stornare le
beffe che la guerra riserva al soldato: Bäumer e i suoi amici che prima di
un’offensiva vedono accatastate accanto ad un edificio distrutto «una doppia
muraglia di casse da morto, nuove, chiare, appena piallate» che «odorano ancora
di resina, di pino, di bosco» non possono far altro che commentare il fatto con
freddure da caserma; il giovane protagonista muore, per beffa degli eventi,
nell’ottobre 1918 (quando ormai si vocifera a proposito di un imminente
armistizio), «in una giornata così calma e silenziosa su tutto il fronte, che
il bollettino del Comando Supremo si limitava a queste parole: “Niente di nuovo
sul fronte occidentale”».
La guerra, con il suo carico di distruzione, giganteggia
dunque nel romanzo in cui il grido disperato e lungimirante di Remarque si
lamenta del fatto che «migliaia d’anni di civiltà non sono nemmeno riusciti ad
impedire che questi fiumi di sangue scorrano».
«La guerra non è mai una fatalità, essa è sempre e solo una
sconfitta dell’umanità» (Giovanni Paolo II).
(Pubblicato su lavocedelsavuto.it, Registrazione Tribunale
di Cosenza N. 683 del 23/10/2002)
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