di
Mario Gaudio
Quando, nel 1834, Poeti e compagnia fu dato alle stampe,
la reazione del pubblico e della critica risultò di estrema freddezza, come
accade spesso per i capolavori letterari che, a differenza di tanta
letteratura/spazzatura o, in maniera più educata, letteratura commerciale (vedi
i vari Moccia, Faletti, E. L. James), non sono accolti a furor di popolo, ma
necessitano di tempo per essere compresi e ritenuti indispensabili per il
proprio bagaglio culturale.
Del resto, come ogni classico che si rispetti, anche il romanzo di Eichendorff
è, utilizzando una famosa constatazione di Calvino, «un libro che non ha mai
finito di dire quel che ha da dire», pertanto proponibile come antidoto
spirituale/culturale in questi anni politicamente bui, culturalmente morti ed
economicamente distruttivi.
Joseph von Eichendorff |
Certo, si tratta di un romanzo dalla trama complessa, difficilmente
riassumibile, ma che tocca in profondità le corde dell’animo umano e induce ad
attente riflessioni su tematiche quali la poesia, l’arte, l’amore e la vita.
Siamo dunque dinanzi a pagine che affrontano argomenti universali, validi in
ogni luogo e in ogni tempo e che custodiscono un distillato del più puro
Romanticismo tedesco dei primi decenni dell’Ottocento.
La grandezza di Poeti e compagnia sta proprio in questo: racchiudere tutti i
contenuti cari alla sensibilità romantica, ma ponendo come presupposto di base
un’analisi della validità degli stessi; come direbbe Enrico De Angelis,
curatore della edizione di riferimento, siamo dinanzi al «Romanticismo che
giudica se stesso, nei suoi ideali e nelle sue tradizioni».
Un processo del genere potrebbe, a prima vista, sembrare alquanto tedioso per
il lettore ma, con sublime maestria narrativa, Eichendorff affronta con leggerezza
la materia del suo romanzo stimolando di continuo la curiositas e rilassando
l’animo di chi si addentra nelle sue pagine con descrizioni paesaggistiche
degne dei migliori pittori vedutisti e con il sapiente accostamento di termini
capaci di far sentire a chi legge le brezze spiranti nel bosco, i cinguettii
degli uccelli fra gli alberi e le folate di vento tra le mura diroccate di
castelli ritenuti infestati da fantasmi.
Con estrema incisività, simile a un «portentoso mago» sognante i «tempi antichi
che aveva imprigionato per incanto nei suoi cerchi silenziosi», lo scrittore
tedesco penetra con sapienza e delicatezza nei recessi dell’animo umano
facendovi emergere quel desiderio di libertà che solo la poesia riesce a
garantire e solo il poeta è in grado di esprimere.
Tuttavia, se l’arte della parola è al centro del romanzo uno spazio di estremo
rilievo ha anche l’amore, nelle sue diverse sfumature: dalla paura di
innamorarsi che porta alla fuga dalla persona amata (come accade al barone
Fortunat), alla follia causata dalla passione (è il caso dell’ufficiale
francese St. Val che perde il senno a causa della bellezza di Juana, novello
“Orlando Furioso” senza lieto fine), sino ad arrivare all’amore malato della
selvaggia contessa spagnola che allontana i suoi pretendenti ma, nello stesso
tempo, teme di rimanere sola e diventa vittima di un dissidio interiore che la
indurrà al suicidio.
Pagina dopo pagina, scorrono pezzi di vita dei protagonisti, perseguitati da
qualcosa, ma estremamente attratti dalle loro paure: chi teme di amare si
lascia sedurre, chi ama la libertà della poesia si ritrova imbrigliato nella
tonaca sacerdotale (è il caso del conte Victor), chi insegue l’arte piomba
nell’illusione e nella follia.
Poeti e compagnia ha altresì un retroterra ideologico molto forte, dovuto ad
una miscela di legittimismo asburgico (Eichendorff era nato nella Slesia
superiore, territorio prussiano, ma che manteneva intatte le caratteristiche
della precedente sudditanza imperiale agli Asburgo) e cattolicesimo che si
palesa in un costante attacco nei confronti del ceto impiegatizio e borghese,
visto come elemento destabilizzante e distruttore di una società aristocratica
antica e cristallizzata nel tempo. Ecco dunque la critica verso i funzionari
della classe media che vivono in una «terribile operosità» senza avere il tempo
necessario per attività quali «leggere, pensare, pregare».
Non mancano neppure le beffe che si riservano ai personaggi più sciocchi e ciò,
oltre a rendere la lettura più gradevole, consente di intravedere in filigrana
gli atroci scherzi a danno dei sempliciotti che abbondano nel Decameron del
Boccaccio.
Insomma, siamo davanti ad un libro completo e complesso, un classico in grado
di farci interrogare e, contemporaneamente, darci delle risposte, un testo
essenziale per chi crede che «la terra è ancora piena di miracoli, solo che noi
non vi badiamo più».
(Pubblicato su dirittodicronaca.it, Registrazione Tribunale
di Castrovillari (Cs) N. 4/09 del 02/11/2009)
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