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venerdì 23 maggio 2014

Salvatore Borsellino incontra gli studenti nella sala consiliare di Spezzano Albanese

di
Mario Gaudio

Si è tenuto questa mattina, presso la sala consiliare di Spezzano Albanese, un incontro-dibattito con Salvatore Borsellino, fratello del magistrato Paolo, ucciso dalla mafia il 19 luglio 1992.
Ad aprire l’evento, intitolato La bellezza del fresco profumo di libertà…, è stato il saluto istituzionale del commissario prefettizio che ha sottolineato l’importanza di questo «giorno di memoria e di ricordo».
Ha fatto seguito l’intervento di Angela Guida, dirigente di settore, che, dopo aver ringraziato i numerosi studenti e docenti giunti dalle scuole cittadine e da quelle del comprensorio per partecipare alla manifestazione, ha sottilmente considerato che un tale evento, alla vigilia delle elezioni, deve necessariamente far pensare che «la legalità è il primo elemento per la gestione corretta e trasparente delle istituzioni».
Salvatore Borsellino
(Foto di Mario Gaudio) 
Domenica Milione, responsabile della Biblioteca comunale “Giuseppe Angelo Nociti”, promotrice dell’evento inserito nel “Maggio dei libri”, ha ribadito l’importanza di questo incontro sia per i contenuti sia per il pubblico giovane al quale ci si è rivolti, invitando «a conservare la grande eredità morale» di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
È seguita una relazione introduttiva ad opera di una collaboratrice occasionale della Biblioteca comunale che ha inquadrato il problema della mafia e dell’attivismo a favore della legalità con una serie di luoghi comuni ed elementi di carattere meramente retorico che hanno trovato difficoltà ad accordarsi con i toni elevati del successivo discorso di Salvatore Borsellino.
Il protagonista della giornata ha esordito raccontando gli anni della sua giovinezza accanto al fratello Paolo e giustificando il suo intervento come necessario per sé, «in quanto fonte di determinazione e rabbia per vivere», e per le giovani generazioni con cui viene ogni giorno a contatto. Borsellino ha più volte sottolineato il grandissimo coraggio del fratello (che era solito dire: «Palermo non mi piace, ma ho imparato ad amarla») e ha ricostruito i drammatici eventi che hanno caratterizzato la Sicilia negli ultimi venti anni del Novecento.
Borsellino si è soffermato, in modo particolare, sul fatto che le licenze edilizie concesse in maniera spregiudicata dal sindaco mafioso Vito Ciancimino hanno deturpato la cosiddetta “Conca d’oro” e, successivamente, ha analizzato i motivi degli attentati dinamitardi che hanno portato alla morte di suo fratello e di Giovanni Falcone. Si è così raccontata la vicenda di Tommaso Buscetta e delle rivelazioni che hanno consentito di portare alla sbarra numerosissimi mafiosi e di conoscere la struttura piramidale dell’organizzazione criminale.
Borsellino ha poi narrato i drammatici momenti dell’attentato a Falcone e la crudele consapevolezza che di lì a breve la medesima sorte sarebbe toccata anche all’integerrimo Paolo.
Il relatore ha infine denunciato la sparizione della famosa “agenda rossa”, dopo l’attentato di via D’Amelio, per impedire agli inquirenti di rinvenire le prove sulla trattativa Stato-mafia ipotizzata dal magistrato siciliano.
Al termine del dibattito una serie di interventi da parte del pubblico hanno animato l’evento e consentito a Salvatore Borsellino di chiarire numerosi aspetti della vita pubblica e privata di suo fratello Paolo.
La manifestazione è stata indubbiamente di rilievo, ma non sono mancate le inesattezze storiche e le prese di posizione in base a luoghi comuni che hanno impedito di analizzare con obiettività queste sanguinose vicende storiche. A tal proposito, è stata mossa una critica nei confronti dell’ex Presidente del consiglio Giulio Andreotti che, come ben sappiamo, è stato prosciolto per i reati di associazione mafiosa dopo tre gradi di giudizio e di cui, pochi giorni fa, sono emerse nuove lettere nelle quali lo statista scriveva ai suoi familiari le seguenti parole: «Ora che sto per partire per Palermo desidero ripetere con la serietà di un giuramento dinanzi a Dio, cui nulla può essere nascosto o manipolato, che io nulla ho mai avuto a che fare con la mafia (se non per combatterla con leggi o atti pubblici) o con la morte di Pecorelli, del gen. Dalla Chiesa e di chiunque altro tra gli assassinati».
Parole dure sono state espresse anche nei confronti della trattativa Stato- mafia, dinanzi alla quale, a detta dello scrivente, non ci si dovrebbe ipocritamente scandalizzare, dal momento che la trattativa  continua ad essere fatta ogni qual volta si usufruisce dei collaboranti di giustizia per avere informazioni di rilievo sulle organizzazioni criminali.
Insomma, una giornata gradevole, di confronto con chi è stato testimone di eventi luttuosi della nostra Italia, ma intrisa di retorica e accompagnata da una alquanto superficiale analisi storica.

(Pubblicato su dirittodicronaca.it, Registrazione Tribunale di Castrovillari (Cs) N. 4/09 del 02/11/2009)

domenica 11 maggio 2014

L'Osservatorio: La vera (e un po' triste) storia della Festa della Mamma



L'11 maggio, come ogni seconda domenica del mese, si celebra in Italia e in diversi paesi del mondo la Festa della Mamma. Nata oltre un secolo fa negli Stati Uniti, la ricorrenza ha una storia bizzarra e meno "festosa" di quanto si possa pensare: in origine infatti era una giornata di lutto per le madri che avevano perso i figli in guerra. E Anna Jarvis, la donna che più di tutte aveva propugnato l'adozione della festa, combattè per tutta la vita contro la sua deriva commerciale, morendo sola e senza un soldo in un ospizio. 
Tutto ha inizio in West Virginia negli anni Cinquanta dell'Ottocento: Ann Reeves Jarvis, madre di Anna, cominciò a organizzare club di donne impegnate nel miglioramento delle condizioni igieniche e nella lotta alle malattie e alla mortalità infantile. Questi gruppi, spiega la storica Katharine Antolini del West Virginia Wesleyan College, si occuparono anche dell'assistenza ai soldati feriti durante la Guerra civile americana, tra il 1861 e il 1865. 
Nel dopoguerra furono organizzate "Giornate dell'amicizia tra madri" e altri simili eventi pacifisti per promuovere la riconciliazione tra gli ex nemici. Un'attivista, Julia Ward Howe, pubblicò con grande successo un "Mother's Day Proclamation" ("Proclama per il Giorno della Madre") in cui invitava le donne a impegnarsi in politica soprattutto a favore della pace. Nel suo Stato, Ann Jarvis lanciò un "Mother's Friendship Day" per i reduci degli eserciti che si erano combattuti. Ma fu soprattutto sua figlia Anna a battersi per istituire una vera e propria festa, salvo poi passare il resto della vita a osteggiarla. 
Anna Jarvis non ebbe mai figli suoi; fu la morte di sua madre, nel 1905, a spingerla a organizzare il primo Mother's Day su scala nazionale. Avvenne il 10 maggio 1908: furono tenute cerimonie a Grafton, in West Virginia, luogo natale di Jarvis, in una chiesa oggi chiamata International Mother's Day Shrine ("Tempio della Festa internazionale della Mamma"); a Philadelphia, dove Jarvis viveva, e in diverse altre città americane. Negli anni seguenti l'appuntamento riscosse sempre più successo, finché, nel 1914, il presidente americano Woodrow Wilson destinò ufficialmente la seconda domenica di maggio alla celebrazione della festività.
"Per Jarvis doveva essere una giornata da passare con la propria madre per ringraziarla di tutto ciò che aveva fatto", spiega Antolini, che ha dedicato al tema la sua tesi di dottorato. "Non era la festa di tutte le mamme, era la festa della migliore mamma che ciascuno di noi avesse mai conosciuto: la propria". Ecco perché Jarvis insisteva che se ne parlasse al singolare: "Mother's Day", non "Mothers' Day" (Festa della Mamma, non "delle mamme"). 
Ma agli occhi di Jarvis il successo si trasformò in fallimento. Quella che doveva essere una giornata da trascorrere nell'intimità della famiglia diventò presto un'occasione d'oro per incentivare l'acquisto di fiori, dolci, biglietti d'auguri. Anna ne fu profondamente infastidita, e cominciò a dedicare tutta se stessa (e la sua non trascurabile eredità) al compito di riportare la Festa alle origini. Fondò la Mother's Day International Association per riprendere il controllo delle celebrazioni; organizzò boicottaggi, minacciò cause legali e attaccò persino la First Lady Eleanor Roosevelt e le sue iniziative di beneficenza organizzate nel giorno della festa.
"Nel 1923 Anna fece irruzione a un congresso di produttori di dolciumi che si teneva a Philadelphia", racconta Antolini. "Due anni dopo si ripeté al congresso delle American War Mothers, un'associazione che esiste tuttora, che nel giorno della Festa della Mamma vendevano garofani per raccogliere fondi. Anna fece irruzione nella sala e fu arrestata per disturbo della quiete pubblica". 
Anna Jarvis continuò a combattere per la "sua" festa almeno fino ai primi anni Quaranta. Morì nel 1948, a 84 anni, in un ospizio di Philadelphia, senza un soldo e afflitta da demenza senile. "Avrebbe potuto approfittare della sua invenzione se avesse voluto", commenta Antolini, "ma invece continuò a combattere contro chiunque ne approfittasse. Per questa battaglia diede tutto ciò che aveva, sia dal punto di vista fisico che da quello economico". 
Oggi naturalmente la vocazione commerciale della Festa della Mamma è più viva che mai. Secondo la National Retail Federation - l'associazione dei rivenditori al dettaglio - quest'anno gli americani spenderanno in media 162,94 dollari per celebrarla, un piccolo calo rispetto al record di 168,94 dollari stabilito l'anno scorso. Per la National Restaurant Association è il giorno dell'anno preferito dagli americani per andare a mangiare fuori. È la terza occasione per lo scambio di biglietti e cartoline d'auguri, dopo Natale e San Valentino: Hallmark, il noto produttore, ne vende ogni anno 133 milioni. Dopo Natale, è il giorno dell'anno in cui gli americani si fanno più regali. 
Dagli Stati Uniti la ricorrenza si è diffusa in tutto il mondo, anche se con sfumature di significato e di entusiasmo diverse. Molti paesi festeggiano la seconda domenica di maggio, tra cui l'Italia, dove la ricorrenza fu "importata" a partire dagli anni Cinquanta. Le cronache raccontano che una delle prime celebrazioni si tenne a Bordighera, zona non a caso famosa per la coltivazione di fiori freschi. 
In gran parte del mondo arabo la Festa della Mamma si celebra il 21 marzo, in coincidenza con l'inizio della primavera. A Panama è l'8 dicembre, quando la Chiesa festeggia l'Immacolata Concezione di Maria, la mamma per eccellenza; in Thailandia il 12 agosto, compleanno della regina Sirikit, sul trono dal 1956 e considerata la mamma di tutti i thailandesi. 
Una parziale eccezione è la Gran Bretagna, dove la tradizione della cosiddetta Mothering Sunday risale a diversi secoli fa. Fissata per la quarta domenica di Quaresima, la ricorrenza in origine era dedicata non alle mamme ma alle "chiese madri": era infatti una giornata di primavera in cui i fedeli andavano a visitare la loro cattedrale. Solo con il tempo la tradizione ha finito per sovrapporsi con la Festa della Mamma così come si festeggia nel resto del mondo.


Bryan Handwerk
Tratto da: www.nationalgeographic.it

sabato 10 maggio 2014

Officina umanistica: Sei lettere inedite di Andreotti ai familiari

L'ex Presidente del Consiglio Giulio Andreotti

«Ho avuto una vita incredibilmente felice». Così Giulio Andreotti definisce la sua esistenza terrena, in una delle sei lettere che scrisse in momenti particolari della sua vita a partire dal 1978. Sono lettere indirizzate ai familiari che dovevano essere aperte solo in caso fosse morto improvvisamente, per cause naturali o per un attentato.
La sua prima lettera è datata 10 aprile 1978, ventiseiesimo giorno del sequestro di Aldo Moro, un momento drammatico per Andreotti: «Non avevo mai pensato di scrivere qualcosa per il mio post mortem, ma gli avvenimenti di queste ultime settimane, dando fragilità alla nostra sicurezza, mi inducono a farlo». Le sei lettere da aprire post mortem, che contengono anche alcune disposizioni per il dopo – «Poche, perché ho comandato fin troppo da vivo», scrive Andreotti con la sua nota ironia in quella più recente, datata giugno 2005 – sono state ritrovate e aperte dai figli dopo la sua scomparsa, avvenuta il 6 maggio 2013, all’età di 94 anni. Ma, in quel giorno di lutto i figli non le hanno fatte leggere a nessuno, per non rischiare di alimentare polemiche strumentali: la notizia della scomparsa del politico italiano più longevo e famoso della storia dell’Italia repubblicana stava facendo il giro del mondo, e, agli attestati di stima e affetto che arrivavano anche da tanti Paesi stranieri, si accompagnavano giudizi critici e ricostruzioni storiche faziose sugli oltre sessant’anni di vita politica dello statista democristiano.
Ora, dopo un anno, in linea con lo stile riservato della famiglia Andreotti, è stata inviata copia delle lettere a pochi parenti e amici. La prima lettera, come detto, è del 1978; le altre cinque sono state scritte tra il 1994 e il 2005, nel periodo in cui Andreotti svolge con assiduità il suo lavoro di senatore a vita, affronta i due processi che lo vedono imputato a Perugia e a Palermo, pubblica libri e dirige il mensile internazionale 30Giorni. E proprio ai giornalisti della rivista («Con i quali – scrive – ho vissuto anni di esaltante collaborazione in uno spirito unitario») è dedicato l’ultimo dei saluti. 
È un Andreotti per certi versi sorprendente (anche se solo per chi non lo conosceva bene) quello che ne emerge: solare e lontano mille miglia dallo stereotipo dell’uomo di potere cinico e indecifrabile che gli è stato cucito addosso in tanti anni; lontano da quel senso di angoscia e cupezza che pervade il film Il Divo di Sorrentino. Le lettere sono indirizzate alla moglie Livia, ai figli e ai nipoti, che per Andreotti sono i principali elementi della sua vita «incredibilmente felice», accompagnata da una profonda fede cattolica. Afferma, infatti, nella lettera del 24 settembre 1999, scritta mentre attende con fiducia la sentenza di primo grado di Perugia: «Li affido alla Madonna e ai miei tre punti fermi di spiritualità: santa Teresa del Bambino Gesù e del Volto Santo, padre Pio e il beato Escrivà». 
Anche se indirizzate ai familiari le lettere sembrano sempre rivolte a tutti, una sorta di testamento spirituale nel quale emerge l’umanità dello statista, ciò in cui credeva e i suoi riferimenti ideali. Pensieri accompagnati sempre da tanto realismo. Scrive, infatti, nella stessa lettera del 1999: «Nell’azione politica qualche sgambetto l’ho fatto e non ho frenato la mia ambizione. Se a qualcuno ho arrecato ingiuste amarezze chiedo indulgenza». E, anni prima, nella lettera del 1978, così aveva sintetizzato la sua vita politica: «Riconosco innanzi tutto di aver avuto un ruolo superiore ai miei mezzi intellettuali, che mi sono sforzato di svolgere nel modo migliore, supplendo con l’impegno alle carenze di base. Nella vita politica mi sono sempre ispirato alla difesa dei più deboli, nutrendo una personale allergia per ogni forma demagogica. Spero di non lasciare dietro di me rancori od equivoci». Tante le persone ricordate con gratitudine nelle lettere, tanti personaggi famosi, ma anche persone qualunque: «Sono grato a quanti mi hanno aiutato: da De Gasperi a Gonella ai Somaschi di S. Maria in Aquiro e a uno splendido sacerdote segnino, don Giuseppe Del Giudice. Se qualcuno vorrà far qualcosa a mio ricordo aiuti il Parroco di S. Giovanni dei Fiorentini, don Luigi Veturi, per la costruzione della cappella dell’Amore Misericordioso. Un pensiero devoto a Giovanni Paolo II che mi ha voluto bene e mi ha tanto aiutato».
Andreotti ha sempre parlato della sua morte con una certa ironia: «Sono in proroga», diceva spesso negli ultimi anni di attività in Senato. Un umorismo popolano romano d’altri tempi, il suo. Nella lettera del 1999 scrive: «Spero di potere dire, chiusi i processi, il mio “Nunc Dimittis” (ma la Scrittura non narra che il saggio vegliardo che aveva atteso Gesù morisse subito dopo il cantico). Debbo comunque dire “Miserere mei Deus secundum magnam Misericordiam tuam”». Ma ci sono passaggi nelle lettere nei quali il registro e i toni cambiano decisamente, le frasi sono profondamente solenni, sembrano scolpite nella pietra. Scrive Andreotti nella lettera del 1978: «Minacciose figure stanno turbando la vita italiana, ma è da gridare alto che non dobbiamo avere paura di coloro che possono solo toglierci la vita terrena. 
Se a me succedesse qualcosa di grave, i miei non nutrano sentimenti di odio e ancor meno di vendetta. Così non farebbe piacere al mio spirito». Ancor più significativo (per chi dà il giusto valore a un giuramento solenne fatto davanti a Dio) quello che Andreotti afferma nella lettera del 25 settembre 1995, scritta il giorno prima della partenza per Palermo, dove si sarebbe tenuta, nell’aula bunker del carcere dell’Ucciardone, la prima udienza che lo vedeva imputato per associazione mafiosa: «Ora che sto per partire per Palermo desidero ripetere con la serietà di un giuramento dinanzi a Dio, cui nulla può essere nascosto o manipolato, che io nulla ho mai avuto a che fare con la mafia (se non per combatterla con leggi o atti pubblici) o con la morte di Pecorelli, del gen. Dalla Chiesa e di chiunque altro tra gli assassinati. 
Mi offende particolarmente l’insinuazione che non si sia fatto tutto il possibile per salvare Moro. Sul perché sia nata l’infame iniziativa del marzo 1993 non sono ancora in grado di dare una risposta. Il tempo e, spero, i giudici lo dovranno acclarare. Se per il lungo decorso delle procedure o per la realizzazione di un attentato che è da tempo nell’aria io non arrivassi da vivo alla verità spero che si trovi comunque un modo di renderla palese». La lettera fu affidata, non sigillata, alla segretaria Patrizia Chilelli, perché la consegnasse ai figli nel caso lui non fosse tornato dalla trasferta siciliana. Chilelli ci ha raccontato che quel giorno tentò di sdrammatizzare, ma Andreotti le rispose: «Custodiscila perché i tempi si fanno torbidi». 
Nelle lettere Andreotti trova un senso cristiano anche alla bufera giudiziaria che durò dal 1993 al 2004: «Ero abituato a troppi onori e tappeti rossi. Non arrivo a ringraziare chi mi ha teso la trappola, ma non porto rancori» scrive in una delle due lettere del 1999. Un pensiero che in quegli anni espresse anche in interviste e interventi pubblici.
Ma è ancor più chiaro nella lettera del 1995, nella quale, riprendendo le parole che gli aveva detto Madre Teresa di Calcutta in un incontro privato nel suo studio, all’inizio del calvario giudiziario, lascia scritto: «Nella mia vita ho avuto tanto: incarichi, onori, fiducia, riconoscimenti accademici. Che potevo offrire in cambio alla Provvidenza divina? Forse questi anni di sofferenze e di calunnie servono a bilanciare un corso di vita tutto favorevole. Sarebbe ingiusto avere lo stesso premio eterno dei poveri che, senza una casa o un lavoro, affollano le chiese chiedendo un aiuto che non sempre possiamo dar loro». L’aiuto ai poveri è una raccomandazione a figli, nipoti e amici sempre presente nelle lettere: «Raccomando di aiutare i poveri di cui mi sono occupato. Ho sempre detto loro che ero uno strumento; e ora la Provvidenza provvederà altrimenti». E nel 2005, al termine della lettera, aggiunge anche alcuni post scriptum. Nel primo scrive: «Viene al portone spesso un poverino, spesso ricoverato per cure. Con i miei lo chiamiamo: “il vecchietto”. Aiutatelo».


Roberto Rotondo
Tratto da: www.avvenire.it




lunedì 5 maggio 2014

Officina umanistica: I segreti di Andreotti e della storia d'Italia

L'ex Presidente del Consiglio Giulio Andreotti

Dell'uomo pubblico che più di ogni altro è riuscito a difendere il suo privato, resta un archivio che è tanto personale quanto di Stato. Un mondo fatto di carte riservate e riservatissime o appunti scritti a mano accanto ad altre che raccontano l'uomo curioso e il collezionista maniacale di vignette, menù e perfino pubblicità su di lui. Ma è un mare magnum tutto da navigare l'archivio di Giulio Andreotti ed è così che l'ha lasciato a disposizione di studiosi e curiosi, prima di andarsene il 6 maggio di un anno fa.
Donato nel 2007 all'Istituto Sturzo, conta 3500 faldoni (buste in gergo) ordinati in armadi che scorrono su binari nel seminterrato di via delle Coppelle, a due passi dal Pantheon. Si intravedono dalle finestre che danno sulla strada, grigi e anonimi, eppure racchiudono discorsi, retroscena e forse segreti dell'uomo che fu per sette volte al governo e in altrettanti ministeri. "E' un archivio del tutto singolare - spiega Giuseppe Sangiorgi, segretario generale dell'Istituto Sturzo dove sono conservati anche i documenti di Gronchi, Scelba, della Dc - perché è un archivio privato di Stato e credo sia l'unico esempio in Italia e forse uno dei pochi in Europa per l'enormità delle dimensioni".
Lungo 600 metri se quelle carte fossero tutte in fila, racconta la parabola del Divo Giulio dalle foto dei genitori agli ultimi discorsi, compresi i guai giudiziari e le carte dei processi. E di conseguenza la storia d'Italia dai primi anni '40 al 2010 passando per i congressi della Dc, il sequestro Moro, le battaglie pro e contro il divorzio fino agli atti del Vaticano e al dibattito sull'Europa unita. Ma finora solo 600 faldoni sono stati inventariati (il 20% circa) e in parte digitalizzati. Tanti, quindi, sono consultabili da chi ne fa richiesta. Restano fuori, tra gli altri, il fascicolo Moro e quello su Ustica. "Ci vorranno anni per finire", ammette Sangiorgi, convinto che sia un lavoro necessario per sbrogliare la matassa, e non per temporeggiare imponendo censure.
"Andreotti i suoi segreti li ha lasciati qui, all'Istituto Sturzo, e non nella tomba come si racconta - insiste il segretario - Qui ci si imbatte spesso in documenti con la scritta 'riservato', 'riservatissimo', 'segreto'. In effetti gran parte del materiale era coperto da riserbo e man mano che sarà inventariato, faremo luce sulla storia italiana. Ad esempio sull'epilogo della Democrazia cristiana che si riflette nel carteggio tra Andreotti premier e Cossiga presidente della Repubblica, che assistono impotenti a quel declino".
Da qui un messaggio a Paolo Sorrentino, il regista del Divo: "Una volta vorrei portarlo qui - propone Sangiorgi - aprire con lui questi faldoni, capire la complessità della storia e dell'azione politica di Andreotti e chiedergli se pensa di fare una seconda edizione di quel film".

Michela Suglia
Tratto da: www.ansa.it

sabato 3 maggio 2014

Parola d'autore: Andrea Camilleri



Montalbano non finiva mai d’ammaravigliarsi di come erano fatti gli òmini che travagliavano in televisione. Pri sempio, ti facivano vidiri le immagini di un terremoto con migliaia di morti, paìsi interi scomparsi, picciliddri feriti e piangenti, cadaveri a pezzi e subito appresso: «Ecco a voi ora delle belle immagini del carnevale di Rio». Carri colorati, allegria, samba, culi.

Andrea Camilleri, La pazienza del ragno


venerdì 2 maggio 2014

Officina umanistica: Il pane dell'umanità



Che l’uomo è ciò che mangia è il detto famoso di Feuerbach: sembra fatto apposta per l’Expo 2015. Esso compare in uno scritto del 1862 e non va inteso in senso grettamente materialistico. L’uomo è innanzi tutto bisogno naturale e se questo tratto non viene soddisfatto, l’accesso ai valori dello spirito ne risulta inibito, come accade per un’umanità, abbrutita per generazioni, dalla fame e dalla miseria. Invece di tante prediche sulla virtù, sarebbe più efficace procurare loro di che sfamarsi. Come si vede, l’intento di Feuerbach è politico e sociale. Invece, il fisiologo positivista Jacob Moleschott (che pure a Feuerbach intendeva ispirarsi) propose una Teoria dell’alimentazione (1850) che si muoveva in parallelo con la sua affermazione: «senza fosforo non esiste il pensiero». Moleschott insegnò anche a Torino e a Roma e il suo brutale materialismo suscitò la reazione indignata di Mazzini. Il dibattito storico sul cibo ha in effetti una lunga storia, nella quale spicca il contributo di Kant. Nello scritto del 1786 (Congetture sull’origine della storia) Kant osò rileggere i capitoli 2-4 del primo libro della Genesi in una chiave razionalistica. L’uscita dell’uomo dal paradiso dell’istinto animale, venne promossa dalla famosa scelta della mela, cioè dal desiderio di estendere la conoscenza degli alimenti. Non è la mela in sé che è importante, ma quel primo emergere della coscienza di una vita retta, essenzialmente, non dall’istinto ma dalla ragione e dalla sua ansia di ricerca. Gli umani scoprirono così la capacità di andare oltre i limiti naturali, per inaugurare inediti sistemi di vita, sino a diventare «scopo a se stessi». Cominciò allora propriamente la storia, sintetizzata in una frase straordinaria: «La ragione — scrive Kant —, spinse l’uomo a sopportare pazientemente la fatica, che egli odia, a perseguire ardentemente le piccole cose che egli disprezza e a obliare la morte stessa, davanti alla quale egli trema, per amore di queste inezie, la cui perdita lo atterrisce ancor più». Questa faccenda di Adamo ridotto a un bestione tutto stupore e ferocia, e curiosità alimentare, non piacque alle autorità religiose prussiane e Kant passò i suoi guai, senza peraltro ritrattare ciò che aveva scritto. Egli aveva capovolto il senso del racconto biblico: non la caduta dell’uomo da una condizione di perfezione, ma l’inizio di un processo di incivilimento e di progresso morale e intellettuale: in quel processo anche il cibo aveva la sua parte.
I filosofi sono intuitivi e spesso anticipano gli scienziati, i quali oggi non hanno dubbi nell’indicare nel cibo uno dei parametri fondamentali per comprendere la nostra storia naturale e sociale: una storia assai più antica e complessa di come potessero immaginare Feuerbach o Kant, contrassegnata da una lunghissima incubazione nel cuore dell’Africa e poi da una diaspora di forse diecimila anni, che condusse l’homo sapiens a prendere progressivamente dimora in tutti i luoghi della terra e in quasi tutti i climi del pianeta. Così gli archeologi e gli antropologi cercano negli scavi residui carbonizzati di cibo e studiano la condizione dei denti negli scheletri per farsi un’idea dell’alimentazione dell’umanità primitiva, traendone nel contempo informazioni essenziali per le strutture familiari e sociali e per l’evoluzione dell’intelligenza, quasi a ripetere, in modi documentati e argomentati, il motto di Feuerbach. Il passaggio da un’economia della raccolta e della caccia all’allevamento e alla coltivazione, mostra da sé come il cammino delle abitudini alimentari e dei progressi tecnici e psicologici vadano di pari passo. L’uomo è ciò che mangia, o meglio, è ciò che fa per procurarsi il cibo del corpo e la salute dell’anima. Come risolve questi problemi determina e rispecchia la sua personalità morale, sicché la differenza tra il cibo crudo e il cibo cotto è, per esempio, un parametro importante per comprendere il cammino stesso della civiltà.
Il cibo è in una relazione essenziale col lavoro sociale e questo è oggi un grande problema. Come risolveremo i bisogni alimentari senza devastare il clima, senza distruggere le biodiversità, senza sottrarre alle popolazioni locali il diritto di scegliersi uno sviluppo autonomo, senza arrendersi all’avidità economica di pochi e all’egoismo dei più forti, senza continuare un cammino la cui follia potrebbe generare la rovina di tutti, queste sono le sfide che il tema del cibo riassume e concentra in sé. Insomma: dimmi come mangi e ti dirò chi sei.

Carlo Sini
Tratto da: www.corriere.it (30 aprile 2014)