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lunedì 29 febbraio 2016

Il patrimonio artistico di Trebisacce nel libro di Ludovico Noia

di 
Mario Gaudio

Trebisacce. Studi sul patrimonio
artistico (secoli XV - XVIII)
di Ludovico Noia
Trebisacce. Studi sul patrimonio artistico (secoli XV – XVIII) è la prima pubblicazione del giovane e valente storico dell’arte Ludovico Noia, emblema di chi, attraverso lo studio e la valorizzazione dei legami con la propria terra e le tradizioni, non si arrende e, a differenza di coloro che propongono soluzioni sbrigative quali il lasciar deperire antichi affreschi sotto le infiltrazioni dell’umidità e la mannaia del disinteresse (come nel caso della chiesa matrice di Spezzano Albanese) o il ricoprirli di un umiliante strato di vernice bianca (come è accaduto pochi giorni fa ai dipinti della storica chiesa dei cappuccini del comune abruzzese di Montorio), indaga il passato per continuare a dar voce ad antiche opere capaci di trasmettere, oggi più che mai, attualissimi insegnamenti.
Noia, a partire da contributi precedenti di appassionati studiosi (Ezio Aletti, padre Francesco Russo, Piero De Vita, i fratelli Leonardo e Luigi Odoguardi) e sulla scia degli scritti e delle ipotesi di Giorgio Leone, si abbandona ad un’attenta analisi sulle opere scultoree custodite nell’antica chiesa madre di Trebisacce che, scorrendo le pagine di questo libro, appare simile ad uno scrigno in grado di racchiudere  una consistente parte delle bellezze artistiche della cittadina dell’Alto Jonio.
Chiesa di san Nicola di Mira
(Trebisacce - centro storico)
L’autore, scrupoloso nell’utilizzo delle fonti e appassionato di ricerca d’archivio, ricostruisce innanzitutto l’annosa questione relativa alla datazione della chiesa madre del centro storico, legata alla diversa e, spesso maldestra, interpretazione di un’iscrizione - rinvenuta sul campanile - che ha fatto oscillare la data di fondazione dell’edificio sacro all’interno di un ventaglio di possibilità comprese tra il 1004 e il 1544.
In seguito, Noia procede ad una attenta disamina delle sculture presenti nella chiesa di san Nicola di Mira proponendo e argomentando, documenti alla mano, attribuzioni e datazioni, soffermandosi in particolar modo sull’operato della bottega dei Cerchiaro (intagliatori e scultori dell’area del Pollino attivi dalla seconda metà del XVII secolo agli albori del XIX) e di Agostino Pierri (artista di Lagonegro). A ciò si aggiunge l’analisi di opere sostanzialmente inedite per la critica: una coppia di mostre di stipiti di porta del XVIII secolo, un confessionale e una serie di elementi decorativi floreali riemersi dopo i restauri che la chiesa madre ha subito nel 2003.
Simulacro ligneo di san Nicola
di Mira (1777)
Non manca un interessante accenno alle vicende di restauro che hanno riguardato l’edificio ecclesiastico nel 1994, episodio importante dal punto di vista storico – artistico, dal momento che sono state rinvenute ventotto fosse tombali con resti umani, la scultura rappresentante Sant’Antonio abate, il simulacro di un santo monaco, il manichino della Madonna Addolorata e, soprattutto, un pregevole Cristo che, adeguatamente ripulito e sistemato, campeggia oggi trionfante sul muro dell’abside.
Noia sposta poi l’attenzione sulla pittura esaminando una tela raffigurante la Santissima Trinità realizzata da Francesco Antonio Algaria, pittore cassanese poco conosciuto, autore di opere sparse in diverse realtà della diocesi di Cassano allo Ionio e di un pregevole dipinto rappresentante la Trinità con i santi Pietro e Paolo (firmato e datato 1769 ma, stranamente, non schedato dalla Soprintendenza della Calabria) custodito, dietro il coro ligneo, sulla parete absidale della chiesa matrice di Spezzano Albanese.
Crocifisso ligneo rinvenuto nel 1994 in
occasione dei lavori di restauro della
Chiesa Matrice di Trebisacce
(prima metà del XV secolo)
Trebisacce. Studi sul patrimonio artistico (secoli XV – XVIII) si presenta dunque come un testo di pregevole fattura, corredato da un imponente apparato iconografico e contenente interessanti spunti di ricerca; il tutto offerto in un linguaggio semplice ma concreto, con i tecnicismi del caso ma scevro di pedanteria.
Insomma, siamo dinanzi ad un libro che merita di essere letto, risultato di ricerca e passione di uno storico dell’arte che, come auspicato, è riuscito a raggiungere quell’equilibrio tra emozioni e obiettività scientifica sopravvivendo allo sterile campanilismo e al querulo sentimentalismo di tanta pseudocultura della nostra martoriata terra calabrese.

(Pubblicato su dirittodicronaca.it, Registrazione Tribunale di Castrovillari (Cs) N. 4/09 del 02/11/2009)

















sabato 27 febbraio 2016

PASSIONE E MORTE di N. S. GESU’ CRISTO

Appunti storico – artistici con particolare riferimento al tema della Crocifissione

a cura di 
Cesare De Rosis

Cristo Crocifisso
Cosa si può dire di nuovo in merito all’iconografia della Crocifissione? Molto poco o nulla. Monumentali studi sono stati condotti in ogni tempo e in ogni luogo da autori ora più ora meno ricercati. Ogni città, ogni borgo con le sue cattedrali, basiliche, chiese, santuari annovera almeno un crocifisso nel proprio inventario.
L’entrata nell’arte del crocifisso si può fare risalire al IV secolo, con l’apparire delle prime croci formate da una trave verticale e un’altra orizzontale, detta “patibulum”, senza la figura del Cristo. L’iconografia della croce ebbe, tuttavia, una rapida evoluzione tra la fine del IV e l’inizio del V secolo, come è possibile riscontrare nell’abside di S. Stefano Rotondo a Roma, dove comincia a comparire il Cristo posto sopra una croce gemmata, anche se non ancora crocifisso.

A partire dal V secolo la croce con il Cristo comincia a rappresentare il simbolo per antonomasia della religione cristiana ed inizia ad occupare un posto preminente nella produzione dell’arte sacra. La figura del Cristo prende il posto dei diversi simboli con cui era stato concepito nell’antichità, quali la colomba, il pesce o l’Agnello, il più privilegiato presso tutti i popoli del Mediterraneo, come segno dell’innocenza e della purezza e per indicare Cristo come vittima sacrificale per eccellenza.
Nel XII secolo cominciarono ad apparire le prime croci dipinte direttamente su legno da appendere all’arco trionfale delle Chiese. Con questa innovazione si tornava anche alle immagini del “Christus Triumphans”, con il Cristo posto in posizione frontale, con la testa eretta e gli occhi aperti nel trionfo della morte.
L’interesse veristico viene in primo piano, dopo il 1250, ma portando con sé un impoverimento del messaggio teologico.
E’ sintomatico in questo senso il fatto che, dal finire del ‘200, il Cristo sia sempre rappresentato morto, al contrario di quanto era avvenuto sino ad allora, quando il Cristo sulla croce era raffigurato vivo, con gli occhi aperti.
Le raffigurazioni precedenti operavano la loro scelta non per attenuare il realismo del dolore, ma per annunziare già la realtà della vittoria sulla morte.
Di significato analogo è la scomparsa della raffigurazione del Risorto dalle croci. Essa era presente o nella cimasa delle croci, oppure nel gioco del recto/verso dei crocefissi che rappresentavano da un lato il Cristo sofferente e dall’altro il Risorto o il Cristo in gloria.
Dal XIII al XIV secolo si rientra nella raffigurazione del Cristo sofferente, con la testa reclinata sulle spalle, gli occhi chiusi e il corpo incurvato nello spasmo del dolore. Ritorna il “Christus Patiens” con l’esaltazione drammatica del Cristo morente.
Con l’inizio del XV secolo all’arte della tavola lignea dipinta subentrò quella del crocifisso scolpito direttamente sul legno. Anche le forme ieratiche e stilizzate delle croci dipinte si ricompongono e si completano nella bellezza e nell’armonia delle forme classiche.
Per sommi capi queste note possono ritenersi esaustive. Tuttavia è bene sintetizzare ulteriormente queste tappe storiche e completarle con i riferimenti simbolici che l’iconografia della Crocifissione assume in epoche più recenti.
Nell’età paleocristiana appare solo la croce gloriosa. L’Alto medioevo sfoggia il crocifisso trionfante.  Dopo il mille emerge il crocifisso della passione. Con il sorgere del Rinascimento recuperiamo il Cristo uomo ideale. Di lì a poco con la Controriforma, il Barocco ed oltre si alternano estasi e pianto. Et dulcis in fundo nel Novecento o più propriamente nell’arte contemporanea si vuol rappresentare la croce come dramma del mondo.
Una postilla merita la definizione “crocifisso trionfante”. Di stampo bizantino sono le pale d’altare a forma di croce che vedono protagonista, appunto, Cristo crocifisso; un Cristo che però ha gli occhi sgranati, è sveglio: un Cristo che vince la morte perché Figlio di Dio, perché il Salvatore dell’Umanità. Il Cristo Triumphans (Cristo Trionfante per l’appunto), si presenta quindi fermo, privo di dolore o spasmi, vivo e sereno, sorretto ad una croce che racconta in linea di massima tramite pannelli applicati a ridosso del corpo e delle braccia di questa, momenti della vita di Gesù. Nei secoli successivi, e precisamente nel Basso Medioevo, si registra un cambiamento che si accentuerà sempre più fino al Concilio di Trento. Dal XIII secolo in poi, il dolore che martirizza il suo corpo emerge nella resa del suo incarnato, non più roseo, che diventa livido. Le braccia sono più tese e cedono al peso del corpo flesso e abbandonato dalle forze. Il capo è reclinato, gli occhi chiusi; Cristo è così rappresentato nel momento del trapasso e, pur nella dignità del sacrificio, non è più trionfante, bensì dolente. Il mutato clima culturale conduce alla rivalutazione dell’humanitas e per questo, a partire dal tardo Duecento e lungo tutto il Trecento, una concezione più terrena dell'esperienza mistica del fedele fa emergere una nuova visione del mondo fisico e metafisico.
Nell’area più meridionale d’Italia, dove era preminente il Cristo trionfante, un’opera fondamentale che si pone invece in questa circolazione sul modello doloroso è la Stauroteca della cattedrale di Cosenza, opera prodotta a Palermo nel XII secolo. La croce-stauroteca  è stata attribuita dalla tradizione a Federico II, perché ritenuta un dono del sovrano in occasione della riconsacrazione della cattedrale di Cosenza nel 1222 (Santagata, 1974). In realtà, è stata realizzata in età tardo-normanna nei laboratori regali siciliani ed è plausibilmente entrata in possesso di Federico II assieme al composito tesoro dei suoi predecessori (Dolcini, 1987 e 1995).
Un esemplare degno di nota si trova ad Acri. E’ del XIII secolo. Il Cristo è raffigurato con gli occhi chiusi, cioè dopo il momento della morte. Nel sec. XI comincia ad affermarsi la rappresentazione del Cristo morto, probabilmente anche per influsso della teologia orientale, che voleva rimuovere ogni residuo dell’eresia monofisita e sottolineare anche la natura umana di Cristo.
Altra tipologia è la “Crocifissione con i dolenti in umiltà” ovvero con la Vergine e san Giovanni seduti ai piedi della croce. Pare abbia avuto origine nell’Italia centrale tra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento, per poi svilupparsi soprattutto in ambito senese e fiorentino nel corso del secolo successivo attraverso la miniatura, l’oreficeria, la pittura e il rilievo. Tra il XIV e XV secolo è attestata in diverse aree italiane.
In tutte le Chiese di Spezzano Albanese, eccetto il Santuario, si può ammirare la statua del Crocifisso: ideata in cartapesta nella Chiesa S. Maria di Costantinopoli e Santa Maria del Carmine, in legno nella Chiesa dei Ss. Pietro e Paolo. Un esemplare magnifico in legno si conserva nella Cappella funeraria della famiglia Longo presso il cimitero cittadino. Allo stesso modo si conservano tre statue del Cristo risorto, di cui due in gesso e uno in cartapesta, rispettivamente nelle due Chiese parrocchiali e in Santa Maria di Costantinopoli.

Gesù Morto
La statua è racchiusa in una teca di vetro impreziosita da cornice dorata. Sotto la statua e il sudario, il “materasso” di velluto rosso reca la data del 1889. Prima che venisse commissionata questa statua veniva utilizzata un’altra di dimensioni più ridotte e certamente più antica oggi conservata nella Chiesa di Santa Maria di Costantinopoli. Viene portato in processione con l’Addolorata il Venerdì Santo. 

La processione del Venerdì Santo si snoda alle ore venti accompagnata dai canti tradizionali in lingua albanese di cui è parzialmente autore l’arciprete Fronzini, il resto proviene dalla orale tradizione popolare,  dai testi del letterato Giulio Variboba e di Francesco Antonio Santori un sacerdote di Santa Caterina Albanese, in provincia di Cosenza.
Il pio esercizio della Via Crucis, nelle settimane di Quaresima, segue la struttura classica delle XIV stazioni. Il Venerdì viene officiata nella Chiesa dei Ss. Pietro e Paolo mentre la Domenica nella Chiesa di S. Maria del Carmine, dove si conservano stampe esemplari che narrano il percorso di Gesù dal pretorio di Pilato al Calvario. I canti sono attribuiti dalla tradizione a Pietro Metastasio. Le opinioni in merito sono, tuttavia, discordanti tra loro.

Note
Giorgia Pollio, “Oreficeria Federiciana”, in Enciclopedia Treccani , 2005.
Maria Pia Di Dario Guida, La stauroteca di Cosenza e la cultura artistica dell’estremo sud nell’età normanno-sveva, Cava de’ Tirreni 1984.
Maria Pia Di Dario Guida, “Evoluzione di una tipologia iconografica nell’Alto medioevo. Il Cristo crocifisso in Europa e nell’Oriente mediterraneo”, in Alla ricerca dell’Arte perduta, Gangemi editore 2006.
Cosimo Lasorsa (a cura di), “L’iconografia della Crocifissione”, in Il Vaticanese, 6 novembre 2012.
Andrea Lonardo, Nota sulla rappresentazione iconografia del crocifisso ed il suo messaggio teologico ed ecclesiologico, s.d.
Antonio Dario Fiorini, La figura di Cristo nella Storia dell'Arte tra iconografia e simbolismo, 9 aprile 2014.
Cesare De Rosis, “Acri: restituito al culto il Crocifisso medievale”, rivista In Cammino, Anno XVI n. 4, Aprile 2014, p. 22.
Cesare De Rosis. Medioevo Aureo. La Stauroteca di Cosenza nella produzione artistica della fase normanno – sveva (in corso di stampa)
Gianni Cioli, “La Crocifissione con i dolenti in umiltà. Appunti per un’indagine teologica”, in Arte Cristiana, Anno CIII, 891, Novembre - Dicembre 2015, pp. 433 – 442.

Ringrazio Mario Gaudio per aver permesso la pubblicazione di questo articolo presso la sua rivista on line.

sabato 13 febbraio 2016

"Il lavoro intellettuale": Guitton tra impegno e spiritualità

di
Mario Gaudio

Il lavoro intellettuale di
Jean Guitton
Il lavoro intellettuale è un libro che stupisce per la sua semplicità, dato ancor più rilevante dal momento che si tratta dell’opera di un filosofo che, contrariamente ai suoi colleghi, sfugge all’utilizzo di un linguaggio astratto e quasi iniziatico.
Tuttavia, l’umiltà della forma non deve erroneamente indurci a pensare ad una povertà contenutistica che, sicuramente, non è attribuibile al suddetto testo.
Jean Guitton entra quasi in punta di piedi per distillare tra le pagine anni di esperienze vissute nel campo degli studi e sintetizzare i principali insegnamenti che ne ha tratto. Non è un caso, infatti, che lo stesso autore dichiari di aver generato un «libretto di consigli», destinato a tutti coloro che studiano o lavorano.
Certo, scorrendo i vari capitoli, ci si rende immediatamente conto del fascino di pagine concepite nella calma e nel silenzio, quasi in netto contrasto con il rumore e la frenesia che la civiltà tecnocratica odierna ci impone ma, forse proprio per questo motivo, i messaggi di Guitton arrivano a colpire in maniera efficace la sensibilità di un lettore ormai non più abituato alla riflessione, assuefatto ad un bombardamento informativo tanto rapido quanto labile che scorre sulla rete o comunque attraverso testi mal scritti o autori inspiegabilmente prolifici le cui pagine, foraggiate a sproposito da enti, associazioni culturali ad personam o addirittura ministeri, tritano inesorabilmente un unico concetto, magari anche inizialmente valido, ma presentato al lettore in salse diverse e in acrobatiche e illeggibili variazioni.
Guitton, forte della sua attività culturale e dell’esperienza della privazione (consumatasi nella lunga prigionia presso il famigerato campo Oflag IV D durante gli anni Quaranta), stimola a sviluppare un metodo di lavoro e ad utilizzare al massimo grado le nostre energie mentali in modo da produrre maggiormente e con minor fatica, tenendo sempre presente che la ricerca della perfezione ghiaccia le facoltà e paralizza la fantasia, dacché ci si impone di raggiungere un attributo che appartiene alla divinità, ma che non connota la specie umana.
Ecco dunque che, tra le pagine, si delinea il ritratto del vero intellettuale che, in fin dei conti, non possiede molte cognizioni, ma ha l’abilità di usarle adeguatamente e, soprattutto, riesce a carpire ciò che può essergli utile dalle situazioni più disparate, consapevole del fatto che scegliere un progetto significa, molte volte, escluderne altri ugualmente validi e giustificabili. A ciò si associa la capacità di utilizzare con maestria i vari tipi di argomentazione (a priori, a posteriori e a contrariori), l’astuzia di fare sempre affidamento su autorevoli studi precedenti e la docilità nel lasciarsi guidare dal desiderio che, in fin dei conti, è l’unico, potente e affidabile motore della vita umana.
Il filosofo francesce Jean Guitton
(1901 - 1999)
Nei più svariati casi dell’esistenza, l’uomo trova poi un fedele alleato nei libri, «precipitato» della vita quotidiana capace di metterci in contatto con «la magia di altre esistenze» e situazioni consumatesi in epoche e luoghi remoti.
Insomma, col suo ritmo cadenzato, quasi da antica nenia, tipico di una certa cultura cattolica del Novecento, Il lavoro intellettuale penetra nelle fibre intime del lettore innescando un processo nostalgico che, inevitabilmente, porta a riconsiderare l’utilizzo del tempo a nostra disposizione e a meditare sull’instabilità intrinseca di cose e sentimenti. Un libro ideale, dunque, per fredde e piovose serate d’inverno, con pagine che ben si conciliano col crepitio nel focolare e una bevanda fumante; un testo essenziale per creare attorno a noi una pace da chiostro che, stranamente, risulta più assordante del volume del televisore.

(Pubblicato su dirittodicronaca.it, Registrazione Tribunale di Castrovillari (Cs) N. 4/09 del 02/11/2009)

giovedì 11 febbraio 2016

La produzione letteraria di Giulio Andreotti

Annotazioni su Concerto a sei voci
di 
Cesare De Rosis

Giulio Andreotti (1919-2013)
con i cardinali Ruini e Ratzinger

Molto bene ha fatto Mario Gaudio qualche anno fa nel recensire “Nove appunti di Natale” del senatore Giulio Andreotti, in un tempo coevo alla riedizione del saggio “Primo Gennaio 2025” con una mia introduzione. In quella data, a Dio piacendo, sarà celebrato l’anno giubilare la cui attesa viene però, almeno per questo momento storico, fagocitata dall’attuale Giubileo della Misericordia indetto da papa Francesco. Molto mi rallegra in ugual modo il progetto in cantiere di un pregevole elaborato, come del resto tutti i contributi del mio compaesano, sui “Diari 1976 - 1979” del più volte Presidente del Consiglio. A ciò si aggiunge il non celato proposito di redigere in futuro, Dio permettendo, un pamphlet a quattro mani che esamini sul piano meramente critico e narrativo alcuni testi di storia, Stato e Religione dello statista romano. Checché se ne dica Andreotti rimane un tassello importantissimo della storia italiana non pienamente compreso, purtroppo, nel suo complesso anche per ciò che concerne la sua gustosa produzione letteraria. Esiste una bibliografia direi sufficientemente vasta, un mosaico di libri, oltre che di articoli, che andrebbe letto nella sua interezza per comporre un quadro completo e profondo del politico più unico che raro nella storia italiana. Ne cito alcuni emblematici: “A ogni morte di Papa. I papi che ho conosciuto” nel 1980; la trilogia “Visti da Vicino” nel 1985; De Gasperi. Visto da vicino, nel 1986; L'URSS vista da vicino, 1988; Gli USA visti da vicino, 1989; Sotto il segno di Pio IX, 2000; “2000. Quale terzo millennio?” e altri ancora.
Pochi hanno saputo e sanno scrivere bene. Andreotti sapeva farlo. All’artistico ed insuperato modo di stendere note di storia in prosa con una versificazione fluida ed elegante si associa una grande abilità retorica che affonda le radici nel cardinale Carlo Salotti, rettore della Pontificia Università Urbaniana in Roma, come confessa nell’introduzione al suo Onorevole, stia zitto, edito da Rizzoli nel 1987. Il suo parlare si muoveva con un procedimento litotico per essere poi a tratti ironico nel parlare, nello scritto si atteneva, invece, a mio modestissimo dire, alle regole della retorica aristotelica e alla logica di Pascal. “Tra gli autori di ieri, a Fogazzaro va la mia convinta simpatia. Ma resta per me insuperata l’attrattiva verso la stupenda costruzione logica delle pagine di Biagio Pascal” affermò. Andreotti faceva di tutto per la bella espressione: “Si è perduta da tempo l’abitudine di parlare – uso un termine eloquente – come ci hanno insegnato i genitori. Sembra diminuita la preoccupazione di apparire colti; e si diventa incomunicabili e noiosi  [… ] In verità, nel dopoguerra, i superstiti delle vecchie generazioni si esprimevano con uno stile misto tra il telegrafico e l’ampolloso. Alcuni di noi, giovanissimi, fummo avviati, per avere suggerimenti ad hoc, da grandi maestri di oratoria sacra. Certamente l’arte oratoria e il tono giusto ha il suo ruolo accanto al contenuto di quanto si dice. 
Il Presidente Andreotti a colloquio con
Papa Giovanni Paolo II
Un posto a sé stante tra gli oratori del dopoguerra merita Mario Scelba, validissimo ministro dell’Interno in un Paese agitato e poco orientabile. Colpivano di lui non solo i toni molto ben modulati, ma lo stesso uso di una sintesi di lingua tra l’italiano e il dialettale siculo. [… ] Nel nostro campo eccelleva anche il presidente Gronchi con un timbro toscano molto accentuato e una forte modulazione di registro”. (G. Andreotti, 30 Giorni, 2009). Certo fu pure allievo di De Gasperi e da lui apprese tanto; ma di De Gasperi si dice fosse del tutto refrattario alla retorica e invece molto attento ad annodare i fili della storia, a coglierne l'intima complessità. Sarà così ma il giudizio spetta più a esperti filologi mentre con l'effetto pratico di non annebbiarne in alcun modo il ricordo ritengo sia stato ottimo anche come oratore. Una delle cariche di cui Andreotti andava maggiormente fiero era quello di essere presidente del Centro di studi ciceroniani. Bizzarra è una citazione del senatore che leggo da un vecchio numero di 30 Giorni, rivista che mi regalava puntualmente dopo la consegna postale il compianto padre Lorenzo Bergamin, per tredici anni rettore del Santuario Santa Maria delle Grazie in Spezzano Albanese: “Visto da vicino Cicerone è meno noioso dell’impressione che mi ero portato dietro dal liceo. Forse perché quel che è obbligatorio studiare non avvince”. Dopo questa premessa, o sarebbe meglio dire precisazione introduttiva, approdo alla trattazione che brevemente intendo esporre, ovvero una esame che ha il sapore della recensione sul primo libro di Andreotti del 1945 (ripubblicato nel 2007), “Concerto a sei voci. Roma 1944-1945: i primi governi dell’Italia liberata”, edito da Boroli, che racconta la vita politica italiana, svelandone i retroscena, fino alla costituzione della Repubblica. “Votai Monarchia ma fui fedele alla Repubblica” dichiarò. Le sei voci del “concerto” erano quelle dei partiti dell’antifascismo, di cui facevano parte la Democrazia Cristiana, il Partito Comunista, il Partito Socialista, il Partito Liberale, il Partito d’Azione e il Partito Democratico del Lavoro. Gli ultimi due sono dai più i meno conosciuti per cui mi corre l’obbligo d’una piccola parentesi. Il Partito d'Azione rinacque (dalle ceneri di quello mazziniano del secolo prima) il 4 giugno del 1942 nell'abitazione romana di Federico Comandini. Di orientamento radicale, repubblicano, socialista liberale e socialdemocratico, ebbe vita breve e si sciolse nel 1947. Il Partito Democratico del Lavoro è stato un partito politico italiano di ispirazione democratico-progressista, i cui maggiori esponenti erano Ivanoe Bonomi e Meuccio Ruini che furono rispettivamente Presidente del Consiglio (del Regno) e Presidente del Senato (della Repubblica). Bonomi fu il primo Presidente del Consiglio dell’Italia liberata che gli venne consegnata il 18 giugno 1944. Rimase in carica fino al 21 giugno 1945. Durante il suo periodo di governo risolse le difficoltà dell'arruolamento delle cinque divisioni italiane di supporto agli alleati nella conquista del Nord. A Bonomi succedette, per non molto tempo, Ferruccio Parri, Presidente del Consiglio dal giugno al novembre del 1945. Il suo nome era frutto della mediazione tra chi (comunisti, socialisti e azionisti) sostenevano una scelta radicale e di rottura con il nobilitato clericale e conservatore del pre-fascismo (e che volevano il socialista Pietro Nenni alla guida del governo) e chi (democristiani e liberali) invece voleva scelte più moderate e meno inclini alle riforme anche in vista dello scontro tra monarchici e repubblicani sulla nuova forma di stato da dare alla nuova Italia liberata. Nel 1945 Alcide De Gasperi fu nominato Presidente del Consiglio dei Ministri, l'ultimo del Regno d'Italia. Dal 1946 è Repubblica e questa è un’altra storia. Il biennio 1944 -’46 ebbe la sua importanza e il saggio lo dimostra in modo competente. Andreotti amava il Papa. “Appartengo a una vecchia scuola di cattolici che insegna che si deve voler bene al papa e non a un papa” (30 Giorni 2011). In quegli anni era Papa Pio XII, il principe Eugenio Pacelli. “Un evento di grande importanza, di cui va fatta memoria, è l’imponente manifestazione di folla in piazza San Pietro, nel giorno della Liberazione di Roma. Era il grato riconoscimento della fermezza e del coraggio dell’unico punto fermo, in un contesto che aveva visto la fuga dei potenti e la disperazione del popolo” (30 Giorni, 2008). Questa dichiarazione per evidenziare la grandezza di papa Pio XII. Con i papi che nel tempo si succedevano sul soglio di Pietro c’era più che una lunga amicizia, un feeling strutturale, fino a Bergoglio, un'amicizia, quest’ultima "filtrata" da don Giacomo Tantardini.

30 Gennaio 2016