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giovedì 11 febbraio 2016

La produzione letteraria di Giulio Andreotti

Annotazioni su Concerto a sei voci
di 
Cesare De Rosis

Giulio Andreotti (1919-2013)
con i cardinali Ruini e Ratzinger

Molto bene ha fatto Mario Gaudio qualche anno fa nel recensire “Nove appunti di Natale” del senatore Giulio Andreotti, in un tempo coevo alla riedizione del saggio “Primo Gennaio 2025” con una mia introduzione. In quella data, a Dio piacendo, sarà celebrato l’anno giubilare la cui attesa viene però, almeno per questo momento storico, fagocitata dall’attuale Giubileo della Misericordia indetto da papa Francesco. Molto mi rallegra in ugual modo il progetto in cantiere di un pregevole elaborato, come del resto tutti i contributi del mio compaesano, sui “Diari 1976 - 1979” del più volte Presidente del Consiglio. A ciò si aggiunge il non celato proposito di redigere in futuro, Dio permettendo, un pamphlet a quattro mani che esamini sul piano meramente critico e narrativo alcuni testi di storia, Stato e Religione dello statista romano. Checché se ne dica Andreotti rimane un tassello importantissimo della storia italiana non pienamente compreso, purtroppo, nel suo complesso anche per ciò che concerne la sua gustosa produzione letteraria. Esiste una bibliografia direi sufficientemente vasta, un mosaico di libri, oltre che di articoli, che andrebbe letto nella sua interezza per comporre un quadro completo e profondo del politico più unico che raro nella storia italiana. Ne cito alcuni emblematici: “A ogni morte di Papa. I papi che ho conosciuto” nel 1980; la trilogia “Visti da Vicino” nel 1985; De Gasperi. Visto da vicino, nel 1986; L'URSS vista da vicino, 1988; Gli USA visti da vicino, 1989; Sotto il segno di Pio IX, 2000; “2000. Quale terzo millennio?” e altri ancora.
Pochi hanno saputo e sanno scrivere bene. Andreotti sapeva farlo. All’artistico ed insuperato modo di stendere note di storia in prosa con una versificazione fluida ed elegante si associa una grande abilità retorica che affonda le radici nel cardinale Carlo Salotti, rettore della Pontificia Università Urbaniana in Roma, come confessa nell’introduzione al suo Onorevole, stia zitto, edito da Rizzoli nel 1987. Il suo parlare si muoveva con un procedimento litotico per essere poi a tratti ironico nel parlare, nello scritto si atteneva, invece, a mio modestissimo dire, alle regole della retorica aristotelica e alla logica di Pascal. “Tra gli autori di ieri, a Fogazzaro va la mia convinta simpatia. Ma resta per me insuperata l’attrattiva verso la stupenda costruzione logica delle pagine di Biagio Pascal” affermò. Andreotti faceva di tutto per la bella espressione: “Si è perduta da tempo l’abitudine di parlare – uso un termine eloquente – come ci hanno insegnato i genitori. Sembra diminuita la preoccupazione di apparire colti; e si diventa incomunicabili e noiosi  [… ] In verità, nel dopoguerra, i superstiti delle vecchie generazioni si esprimevano con uno stile misto tra il telegrafico e l’ampolloso. Alcuni di noi, giovanissimi, fummo avviati, per avere suggerimenti ad hoc, da grandi maestri di oratoria sacra. Certamente l’arte oratoria e il tono giusto ha il suo ruolo accanto al contenuto di quanto si dice. 
Il Presidente Andreotti a colloquio con
Papa Giovanni Paolo II
Un posto a sé stante tra gli oratori del dopoguerra merita Mario Scelba, validissimo ministro dell’Interno in un Paese agitato e poco orientabile. Colpivano di lui non solo i toni molto ben modulati, ma lo stesso uso di una sintesi di lingua tra l’italiano e il dialettale siculo. [… ] Nel nostro campo eccelleva anche il presidente Gronchi con un timbro toscano molto accentuato e una forte modulazione di registro”. (G. Andreotti, 30 Giorni, 2009). Certo fu pure allievo di De Gasperi e da lui apprese tanto; ma di De Gasperi si dice fosse del tutto refrattario alla retorica e invece molto attento ad annodare i fili della storia, a coglierne l'intima complessità. Sarà così ma il giudizio spetta più a esperti filologi mentre con l'effetto pratico di non annebbiarne in alcun modo il ricordo ritengo sia stato ottimo anche come oratore. Una delle cariche di cui Andreotti andava maggiormente fiero era quello di essere presidente del Centro di studi ciceroniani. Bizzarra è una citazione del senatore che leggo da un vecchio numero di 30 Giorni, rivista che mi regalava puntualmente dopo la consegna postale il compianto padre Lorenzo Bergamin, per tredici anni rettore del Santuario Santa Maria delle Grazie in Spezzano Albanese: “Visto da vicino Cicerone è meno noioso dell’impressione che mi ero portato dietro dal liceo. Forse perché quel che è obbligatorio studiare non avvince”. Dopo questa premessa, o sarebbe meglio dire precisazione introduttiva, approdo alla trattazione che brevemente intendo esporre, ovvero una esame che ha il sapore della recensione sul primo libro di Andreotti del 1945 (ripubblicato nel 2007), “Concerto a sei voci. Roma 1944-1945: i primi governi dell’Italia liberata”, edito da Boroli, che racconta la vita politica italiana, svelandone i retroscena, fino alla costituzione della Repubblica. “Votai Monarchia ma fui fedele alla Repubblica” dichiarò. Le sei voci del “concerto” erano quelle dei partiti dell’antifascismo, di cui facevano parte la Democrazia Cristiana, il Partito Comunista, il Partito Socialista, il Partito Liberale, il Partito d’Azione e il Partito Democratico del Lavoro. Gli ultimi due sono dai più i meno conosciuti per cui mi corre l’obbligo d’una piccola parentesi. Il Partito d'Azione rinacque (dalle ceneri di quello mazziniano del secolo prima) il 4 giugno del 1942 nell'abitazione romana di Federico Comandini. Di orientamento radicale, repubblicano, socialista liberale e socialdemocratico, ebbe vita breve e si sciolse nel 1947. Il Partito Democratico del Lavoro è stato un partito politico italiano di ispirazione democratico-progressista, i cui maggiori esponenti erano Ivanoe Bonomi e Meuccio Ruini che furono rispettivamente Presidente del Consiglio (del Regno) e Presidente del Senato (della Repubblica). Bonomi fu il primo Presidente del Consiglio dell’Italia liberata che gli venne consegnata il 18 giugno 1944. Rimase in carica fino al 21 giugno 1945. Durante il suo periodo di governo risolse le difficoltà dell'arruolamento delle cinque divisioni italiane di supporto agli alleati nella conquista del Nord. A Bonomi succedette, per non molto tempo, Ferruccio Parri, Presidente del Consiglio dal giugno al novembre del 1945. Il suo nome era frutto della mediazione tra chi (comunisti, socialisti e azionisti) sostenevano una scelta radicale e di rottura con il nobilitato clericale e conservatore del pre-fascismo (e che volevano il socialista Pietro Nenni alla guida del governo) e chi (democristiani e liberali) invece voleva scelte più moderate e meno inclini alle riforme anche in vista dello scontro tra monarchici e repubblicani sulla nuova forma di stato da dare alla nuova Italia liberata. Nel 1945 Alcide De Gasperi fu nominato Presidente del Consiglio dei Ministri, l'ultimo del Regno d'Italia. Dal 1946 è Repubblica e questa è un’altra storia. Il biennio 1944 -’46 ebbe la sua importanza e il saggio lo dimostra in modo competente. Andreotti amava il Papa. “Appartengo a una vecchia scuola di cattolici che insegna che si deve voler bene al papa e non a un papa” (30 Giorni 2011). In quegli anni era Papa Pio XII, il principe Eugenio Pacelli. “Un evento di grande importanza, di cui va fatta memoria, è l’imponente manifestazione di folla in piazza San Pietro, nel giorno della Liberazione di Roma. Era il grato riconoscimento della fermezza e del coraggio dell’unico punto fermo, in un contesto che aveva visto la fuga dei potenti e la disperazione del popolo” (30 Giorni, 2008). Questa dichiarazione per evidenziare la grandezza di papa Pio XII. Con i papi che nel tempo si succedevano sul soglio di Pietro c’era più che una lunga amicizia, un feeling strutturale, fino a Bergoglio, un'amicizia, quest’ultima "filtrata" da don Giacomo Tantardini.

30 Gennaio 2016

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