di
Mario Gaudio
Leoncavallo blues è un libro scomodo, uno di quei testi
che inevitabilmente inducono a riflettere e porsi degli interrogativi che,
forse, non troveranno mai una soluzione. Ed è con grande acume che Alessandra
Arachi, giornalista del Corriere della Sera, costruisce questo dedalo di
domande attraverso il racconto di esistenze umane che, in un modo o nell’altro,
hanno avuto a che fare con il centro sociale Leoncavallo. Ecco allora che le
pagine di Leoncavallo blues presentano un insieme di biografie
estremamente varie che hanno tuttavia come denominatore comune la voglia di
comunicare e confrontarsi.
I giovani sono i protagonisti di questo libro; sono loro che, giorno dopo
giorno, alimentano l’idea secondo cui il Leoncavallo è «una fabbrica di
illusioni dove il tempo non ha fretta di correre via»; sono sempre loro
(nonostante i pregiudizi del caso) a combattere la droga dacché «quando
capitavano ragazzi drogati avevano persino i medici che li accoglievano e li
prendevano in cura e anche gli psichiatri […]»; sono infine loro a organizzare
«mense proletarie e gli aiuti umanitari» e a raccogliere «i soldi per la Bosnia
e per il Rwanda e per i bambini abbandonati in Italia e per i carcerati che
stanno ancora dentro […]».
Certamente è facile giudicare dall’esterno gli occupanti della vecchia
stamperia di via Watteau, ma «[…] le mille scritte che imbrattano i muri e i
vestiti rotti o volutamente sdruciti e i capelli lunghi e gli orecchini ai lobi
o addirittura alle narici o sulle palpebre e i marocchini che bivaccano e la
birra cecoslovacca e i cani che corrono senza guinzaglio» non devono indurci
nella tentazione di generalizzare: da questo clima ideologico sorsero gli
sciagurati che inneggiavano alla strage di Nasiriya, ma, nello stesso tempo, si
svilupparono grandi gesti di responsabilità come le manifestazioni in difesa
della scuola pubblica o dell’ambiente o le collette e le mense popolari
summenzionate in favore degli ultimi della società.
Centro sociale "Leoncavallo" (Milano) |
Insomma, è dal Leoncavallo che nasce una politica di partecipazione e,
contemporaneamente, di contraddizione: «da fuori è comodo decidere che dentro
c’è tutto il male», ma la solidarietà di questi ragazzi «viene a muovere e […]
turbare i ritmi di giornate senza dubbi» di tanti politici che millantano di
appartenere ad una cultura di sinistra ma che, in realtà, amoreggiano con gli
ideali liberali, tanto da dar vita ad un’ambigua alleanza Pd- Pdl (come
giustamente sostiene Vittorio Sgarbi è da notare la banalità delle due sigle
politiche giacché tutti, fino a prova contraria, «siamo democratici, siamo popolo
e siamo per la libertà») finalizzata a sostenere un governo tecnico che non
solo non fa miracoli, ma tratta con guanti bianchi la grande finanza e prende a
calci in culo i lavoratori.
Leoncavallo blues è dunque la macchia rossa sulla tela bianca, la nave che
spunta all’improvviso per disturbare un orizzonte marino piatto e pacifico: le
sue pagine non possono che turbarci e costringerci a guardare con altri occhi
la realtà politica che ci circonda. Per chi milita in un partito di sinistra, o
per chi segue la politica per passione, o per chi, diciamolo pure, la pratica
per interesse, queste pagine rappresentano uno scoglio da superare: dopo
la lettura del testo di Alessandra Arachi non ci si può esimere dal domandarsi
quale legame esiste ancora tra parlamentari imborghesiti e popolo che produce e
per quale assurda ragione la sinistra italiana non affronta più con coraggio i
problemi dell’economia e del lavoro preferendo lambiccarsi il cervello su
questioni, francamente inaccettabili, quali la lotta a favore dell’aborto o del
matrimonio tra omosessuali.
«Davanti alla morte gli uomini sono tutti uguali, ma non davanti alla storia»
(Italo Calvino).
(Pubblicato su dirittodicronaca.it, Registrazione
Tribunale di Castrovillari (Cs) N. 4/09 del 02/11/2009)
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