di
Mario Gaudio
Il campeggio di Duttogliano di Tullio Kezich si presta
perfettamente ad una lettura spensierata e rilassante sotto l’ombrellone: non è
un libro astruso né tantomeno necessita di profonde riflessioni filosofiche che
mal si concilierebbero con i torridi anticicloni dai nomi bislacchi che
continuano a farci visita in questi giorni.
Si tratta di un racconto breve nel quale il mondo e l’esperienza del campeggio
sono descritti attraverso le impressioni di un bambino (Paolo Rancovich) che,
necessariamente, affronta l’esistenza con fragilità, istinto, entusiasmo, paura
e, soprattutto, fantasia.
La vicenda è ambientata in anni ormai lontani (siamo nel periodo che precede il
secondo conflitto mondiale) di cui l’autore sembra avere qualche nostalgia, non
tanto per ciò che accadde, quanto piuttosto per l’impossibilità di poter mutare
quei ricordi ormai cristallizzati a causa del tempo e dei cruenti avvenimenti
storici che seguirono. Kezich, a tal proposito, non esita a constatare che «i
ricordi devono accettare quella dimensione e quei colori, che poi non abbiamo
più potuto correggere o sostituire perché è venuta la guerra, e quasi subito il
territorio si è allontanato da noi come l’Africa o la Grecia».
Adunata di piccoli Balilla |
L’autore, tuttavia, trasfonde questi ricordi in un delizioso incipit capace di
far sentire, vedere, toccare, gustare e odorare al lettore i luoghi e gli
oggetti che furono protagonisti e testimoni di questa storia. Con fine arte
descrittiva e poche ma incisive pennellate lo scrittore triestino è in grado di
fornire l’istantanea di un’epoca e di un posto molto particolare quale risulta
essere una terra di confine: «Adesso Duttogliano è in Jugoslavia, forse non
avremo più occasione di tornare lassù. Ma una volta, parlo degli anni prima
della guerra, le bettole carsoline erano piene di gitanti. Negli stanzoni c’era
odore di pollo fritto, i bicchieri di terrano lasciavano cerchi scuri sui
tavoli e il prosciutto color corteccia veniva tagliato a grosse fette».
Il fascino della terra di confine si avverte palesemente
anche nel linguaggio, con nomi o termini in lingua slava accostati qua e là,
nel corso della narrazione, a parole triestine. Questi sono tuttavia gli anni
del nazionalismo sfegatato che induce da un lato un gruppo di bimbi slavi a
colpire con una fitta sassaiola i balilla che campeggiano sul loro territorio e
dall’altro i ragazzi italiani a dileggiare il piccolo protagonista del racconto
per via del suo cognome di origine slovena che appare tanto estraneo da
spingere a considerare Paolo Rancovich un bimbo «[…] né jugoslavo né italiano»
ma «[…] senza patria e senza Dio».
Il campeggio di Duttogliano di Tullio Kezich |
Il tema del confine non è l’unico fulcro di questa vicenda, giacché in essa
aleggia imperante la delusione delle aspettative: quelle di uno Stato che vede
svanire territori a cui ambiva e quelle di un bimbo ansioso di partire per un
campeggio della Gil («Saremmo partiti per l’altopiano ragazzini di undici anni,
ma ne saremmo tornati uomini, figli di un tempo di rivoluzione») e ben presto
disilluso e divenuto incapace di sopportare un ambiente sostanzialmente
estraneo, fatto di smodata disciplina e vuoti rituali quali l’ammainabandiera e
l’appello del caduto.
In ultima analisi, Kezich ci presenta i costumi di un’epoca in maniera
scorrevole e veritiera, senza impelagarsi in dati storici o in considerazioni
politiche e, per quanto consapevoli delle difficoltà e degli errori di quegli
anni particolari della storia italiana, la lettura del suo racconto consente a
noi, cittadini del terzo millennio e amanti della democrazia, di meglio
penetrare nei recessi di un tempo in cui «[…] bisognava osare sempre, come
D’Annunzio alla beffa di Buccari o Cesare che aveva marciato su Roma per sconfiggere
i vecchioni del Senato».
(Pubblicato su dirittodicronaca.it, Registrazione
Tribunale di Castrovillari (Cs) N. 4/09 del 02/11/2009)
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